Una squadra che ha già vinto

La Stampa

Tutti al potere gli uomini di Lamberto

"Brutto segno, quando si incontrano Dini e Geronzi. Vuol dire che bolle in pentola qualcosa di grosso", dice celiando un vecchio, anonimo "storico" delle Partecipazioni Statali. E non ha poi tutti i torti. Una volta, era il 7 ottobre del '94, l'allora ministro del Tesoro e l'allora direttore generale della Banca di Roma si videro a pranzo, nei saloni damascati della foresteria al secondo piano del palazzo di via del Corso, sede centrale del colosso creditizio capitolino. Di lì a poco, a metà pomeriggio, l'ancora super-tecnico Lambertow sparò il comunicato che era un "ukase": azzeramento dei vertici dell'Ina, siluramento del presidente Lorenzo Pallesi, ingresso in consiglio dello stesso Geronzi.
Cinque mesi più tardi (era il 3 marzo del '95) il già mutante Dini, da presidente del Consiglio, ricevette a Palazzo Chigi il sempre più potente: "Cesarone".
Ebbene: ieri, poco prima delle tredici, la scena s'è ripetuta, e Geronzi ha rivarcato il soglio di Palazzo Chigi, per un fitto colloquio, circa un'ora, con il mutato premier, ora leader del "Rinnovamento italiano". Che sta per succedere? Forse nulla, visto che lo staff di Dini giura si sia trattato di un vertice già in programma, dedicato più che altro ai problemi della banca. O forse tutto, conme paventano gli squadroni assatanati di Gianfranco Fini, che a ragione o a torto individuano in Geronzi l'occulto "Rasputin" del presidente del Consiglio negli affari dell'industria pubblica. Cosa temono, i truci Armani e Rasi, o i guastatori Gasparri e Tana? Il peggio, dal punto di vista di chi, come gli uomini di Alleanza Nazionale, ha sete di poltrone e di potere: le nomine.
Perchè Dini - sordo ai minacciosi avvertimenti che gli hanno lanciato gli uomini della Destra da quando ha annunciato il proprio ingresso in politica - qualche nomina la farà sul serio. Quella del San Paolo di Torino, decisa ieri mattina in tutta fretta, è solo un assaggio, e anche un pò insipido, della vera e più succosa "torta" sulla quale il cocciuto Lambertow metterà le mani a metà aprile, propria nella settimana che precede le elezioni: è cioè il rinnovo dei vertici di Eni e Bnl. "Ho i poteri di farlo - confida Dini ai suoi collaboratori - e in questi casi sarebbe impossibile una propogatio". E allora, è già partita la roulette, le palline stanno per cadere, e come al solito tutti cominciano a strologare su quali saranno i numeri favoriti dal croupier di Palazzo Chigi. Ma in realtà, pensare nel caso di Dini ad una Nomenklatura già bell'e fatta, e pronta a comandare in  nome e per conto del premier nelle grandi aziende pubbliche, rischia di essere fuorviante. Non che Lamberto non abbia uomini "suoi" alle spalle. Ma è in fatto che i più "organici", quelli a lui storicamente più legati, il premier non li deve piazzare, perchè sono già tutti piazzati. Prendiamo le banche, per esempio. Dei rapporti con Geronzi, e fino a qualche mese fa anche con Capaldo, si sa ormai già tutto. Lo "strappo" sull'affare Bna, che Banca di Roma condusse in porto con un blitz fin troppo rapido di cui informò Dini solo a cose virtualmente fatte, è stato rapidamente ricucito. Poi, nel nascente, ancora un pò informe ma potente "polo creditizio cattolico" (Imi, San Paolo, Cariplo, Ina) il premier le mosse che doveva fare le ha già fatte, concordandole nei ripetuti incontri al Quirinale con il presidente Scalfaro, che di quel polo è da sempre il segreto e grande sponsor. All'Imi è tornato da direttore generale Rainer Masera, amico personale di Dini fin dai tempi della Banca d'Italia, poi suo ministro del Bilancio, l'unico con il quale si dava del tu. Al San Paolo di Torino, nella fondazione e nell'azienda bancaria continuerà a comandare Gianni Zandano, altro magari anche "forzato" sodale di Lamberto, mentre all'Ina mena e menerà le danze fino al '98 Sergio Siglienti, ex uomo Comit, ma mai fino in fondo uomo di Cuccia, che nel '79, candidato forte della direzione generale di Bankitalia, si ritirò misteriosamente dalla corsa, e lasciò l'ambito traguardo proprio a Dini. Quando alla Bnl, di cui appunto Lamberto si occuperà nei prossimi giorni, Dini lavorerà con andreottiana diplomazia: Mario Sarcinelli resterà al suo posto, perchè l'ex direttore generale della Banca d'Italia - cacciato ai tempi dello scandalo Sindona - non è uomo che si possa rimuovere. E poi perchè la banca si è ormai ben ripulita dal fango di Atlanta: un valido motivo, questo, per confermare anche il suo amministratore delegato, Davide Croff.
Continuità, insomma, pare essere la stella polare del premier. La stessa che adotterà anche per l'Eni, dove Franco Bernabè non rischia il posto, nè lo rischiano il presidente Luigi Meanti e il consiglio. Troppo buono il bilancio del gigante petrolifero, troppo forti i legami che lo stesso Bernabè - uscito miracolosamente indenne dai terribili colpi d'ascia sull'Eni di Mani Pulite - ha stretto con gli investitori istituzionali americani ora entrati nel capitale con la vendita della prima tranche dell'Eni del dicembre scorso. "E' la migliore privatizzazione che abbiamo fatto in Italia - continua a ripetere il premier - ed è solo l'inizio".
Quanto al resto della grande "greppia" delle poltrone di Stato, sarà affare del governo che verrà: dalla Stet alle authority per l'energia e le telecomunicazioni, dall'Agip alla Snam, la roulettte partirà a giugno. Ma in questo caso, dopo il suo ingresso in politica Dini, pur non avendola creata, una "sua" squadra, se volesse, ce l'avrebbe comunque già pronta: quella costituita dai manager attuali. Perchè la vera dottrina del boiardo, di ieri e di oggi, è il "galleggiamento". Ernesto Pascale, amministratore delegato della Stet, l'ha spiegato bene: "In un momento come questo dobbiamo parlare con tutti i partiti". Per essere pronti cioè, dopo il 21 aprile, a schierarsi con il più forte.
E del resto con quanta fretta (era stao lo stesso Fini a confessarlo pubblicamente dopo il voto del 27 marzo del '94) i vari Pascale, Chirichigno, Viezzoli, Tedeschi e tanti altri - orfani dei vecchi santuari di piazza del Gesù e via del Corso - erano stati costretti a bussare al portone degli unici, veri statalisti irriducibili rimasti, e cioè appunto gli uomini di An? Oggi tira un'aria incerta. E dunque, hai visto mai, se la Sinistra vincesse le elezioni c'è da giurare che l'orda festante dei manager pubblici, cambiati in fretta gli stendardi, farebbe corse pazze per salire sul carro centrista e moderato di Dini. Bisognerebbe vedere, a quel punto, se il premier di oggi (e magari chissà, anche di domani) sarebbe disposto a farli salire.