Stato addio, arrivano i Rocca
Il Giornale
La Dalmine ceduta per 301 miliardi alla Techint e alla Banca di Roma
La privatizzazione del tubo. L'Iri vende la Dalmine alla Techint e alla Banca di Roma. L'Istituto di Via Veneto incasserà 301,5 miliardi, perchè il prezzo di un'azione è stato valutato in 310 lire. Tutto, quindi, secondo programma. Complessivamente il gruppo che fa capo alla famiglia Rocca, ha acquistato l'84,08% delle azioni. Non tutte però resteranno in mano ai Rocca. La Techint manterrà il 35,01%. Il 15% è stato ceduto all'istituto di credito guidato da Cesare Geronzi che curerà anche il collocamento del restante 34.07% presso investitori istituzionali non solo italiani. E' stato deciso, anche se restano da definire i tempi, il lancio di un'Opa, in cui la Techint sarà assistita sempre dalla Banca di Roma, sul restante 16%, che costituisce il flottante. Nessun colpo di scena, se si esclude che il titolo è stato sospeso per un'ora in Piazza Affari e poi, quando è stato riammesso dopo l'annuncio della conclusione dell'operazione, ha guadagnato subito uno 0,75%.
Per il disco verde alla vendita, ieri mattina, si è riunito il consiglio d'amministrazione dell'Iri. L'operazione comunque era stata definita nei minimi particolari nei giorni scorsi, dopo lo stop inaspettato verificatosi nella seduta del 21 dicembre. Sempre ieri, dopo il cda dell'Iri è stata la volta del Comitato di liquidazione dell'Ilva, a cui faceva capo ancora l'azienda bergamasca. Soddisfazione in Via Veneto, come sottolinea Antonio Urciuoli. "Il prezzo di 301 miliardi - dice il consigliere d'amministrazione - ci ha trovati d'accordo, visto che l'ultima offerta ha superato di gran lunga i 240 miliardi offerti inizialmente". Contento il presidente dell'Istituto di Via Veneto, che riesce a portare a casa un'altra dismissione. Adesso sono più di 300 le privatizzazioni, concluse dal '92 ad oggi, con un incasso di almeno 20mila miliardi. "In meno di due anni - fa rilevare Michele Tedeschi - l'Iri ha privatizzato la siderurgia con un beneficio finanziario superiore ai 7mila miliardi. Inoltre, la vendita della Dalmine dimostra che nelle dismissione l'Iri non punta solo al profitto, ma vuole sia anche garantita la continuità aziendale e l'occupazione".
Una volta tanto non protestano i sindacati. Almeno quelli nazionali. L'unica che storce un pò il naso è la Cgil, che vuole avere al più presto un incontro con l'azienda per discutere il piano industriale ed avere assicurazioni sui livelli occupazionali. Gradimento totale in casa Uil. "La nuova proprietà - sostiene Adriano Musi - è entrata nell'azienda con il passo giusto, viste le garanzie offerte sia sui volumi produttivi, sia per quando riguarda l'occupazione". Anche per Natale Forlani della Cisl la soluzione è "senza dubbio positiva perchè la Dalmine aveva bisogno di un'azionista di riferimento. Non credo comunque - prevede il sindacalista clislino - che a breve ci saranno grandi mutamenti". Qualche riserva dalla organizzazioni locali, soprattutto di quelli di Bergamo dove c'è il "cuore" della Dalmine. Temono che possano esserci sorprese per i 4mila dipendenti della Dalmine. Per questo Angelo Faccioli, responsabile della Cisl orobica, vorrebbe che ad un eventuale aumento di capitale una quota sia riservata ai dipendenti. "La Dalmine - insiste Faccioli - dovrebbe seguire l'esempio della Brembo e della Gildemeister, due aziende locali, che hanno previsto il possesso di una quota di azionariato da parte dei dipendenti".
La vendita della Dalmine (il secondo produttore europeo di tubi senza saldatura e il terzo nel mondo con stabilimenti a Dalmine, Costa Volpino, Arcore, Piombino ed un fatturato di 1.600 miliardi) chiude però definitivamente soltato sulla carta il capitolo dell'acciaio di Stato. Resto ancora aperto, infatti, il contenzioso con il gruppo Riva per la questione dell'Ila Laminati Piani di Taranto, il "gioiello" dell'acciaio di Stato. Riva vuole indietro 800 miliardi dei 1.400 già pagati.
Altra questione, ma fortunatamente meno spinosa, l'uscita dell'Iri dalla Acciaierie di Cornigliano e dalla Lucchini siderurgica. Due aziende nelle quali l'Istituto di Via Veneto detiene una partecipazione di minoranza con una quota del 40%. Più complessa é sicuramente la dismissione di Cornigliano, non solo perchè il socio di maggioranza è Emilio Riva con cui è battaglia sulla vendita di Taranto, ma anche perchè ci sono problemi sul bilancio '94. Strettamente economica, invece, la questione con Lucchini Siderurgica, dove il 40% delle azioni è stato pagato, tre anni fa, 320 miliardi. Uscendo l'Iri che adesso è rappresentata dalla Sofinpar perderà almeno il 20% perchè la sua finanziaria non sottoscriverà l'aumento di capitale deciso dal socio di maggioranza.
Dai numeri alle aule giudiziarie. Resto ancora aperta la vicenda scoppiata la scorsa estate per delle presunte false fatturazioni. Vicenda per la quale il vertice dell'azienda bergamasca venne sospeso dalla magistratura, sospensione poi revocata dal Tribunale della libertà il 28 settembre dello scorso anno.
Per il disco verde alla vendita, ieri mattina, si è riunito il consiglio d'amministrazione dell'Iri. L'operazione comunque era stata definita nei minimi particolari nei giorni scorsi, dopo lo stop inaspettato verificatosi nella seduta del 21 dicembre. Sempre ieri, dopo il cda dell'Iri è stata la volta del Comitato di liquidazione dell'Ilva, a cui faceva capo ancora l'azienda bergamasca. Soddisfazione in Via Veneto, come sottolinea Antonio Urciuoli. "Il prezzo di 301 miliardi - dice il consigliere d'amministrazione - ci ha trovati d'accordo, visto che l'ultima offerta ha superato di gran lunga i 240 miliardi offerti inizialmente". Contento il presidente dell'Istituto di Via Veneto, che riesce a portare a casa un'altra dismissione. Adesso sono più di 300 le privatizzazioni, concluse dal '92 ad oggi, con un incasso di almeno 20mila miliardi. "In meno di due anni - fa rilevare Michele Tedeschi - l'Iri ha privatizzato la siderurgia con un beneficio finanziario superiore ai 7mila miliardi. Inoltre, la vendita della Dalmine dimostra che nelle dismissione l'Iri non punta solo al profitto, ma vuole sia anche garantita la continuità aziendale e l'occupazione".
Una volta tanto non protestano i sindacati. Almeno quelli nazionali. L'unica che storce un pò il naso è la Cgil, che vuole avere al più presto un incontro con l'azienda per discutere il piano industriale ed avere assicurazioni sui livelli occupazionali. Gradimento totale in casa Uil. "La nuova proprietà - sostiene Adriano Musi - è entrata nell'azienda con il passo giusto, viste le garanzie offerte sia sui volumi produttivi, sia per quando riguarda l'occupazione". Anche per Natale Forlani della Cisl la soluzione è "senza dubbio positiva perchè la Dalmine aveva bisogno di un'azionista di riferimento. Non credo comunque - prevede il sindacalista clislino - che a breve ci saranno grandi mutamenti". Qualche riserva dalla organizzazioni locali, soprattutto di quelli di Bergamo dove c'è il "cuore" della Dalmine. Temono che possano esserci sorprese per i 4mila dipendenti della Dalmine. Per questo Angelo Faccioli, responsabile della Cisl orobica, vorrebbe che ad un eventuale aumento di capitale una quota sia riservata ai dipendenti. "La Dalmine - insiste Faccioli - dovrebbe seguire l'esempio della Brembo e della Gildemeister, due aziende locali, che hanno previsto il possesso di una quota di azionariato da parte dei dipendenti".
La vendita della Dalmine (il secondo produttore europeo di tubi senza saldatura e il terzo nel mondo con stabilimenti a Dalmine, Costa Volpino, Arcore, Piombino ed un fatturato di 1.600 miliardi) chiude però definitivamente soltato sulla carta il capitolo dell'acciaio di Stato. Resto ancora aperto, infatti, il contenzioso con il gruppo Riva per la questione dell'Ila Laminati Piani di Taranto, il "gioiello" dell'acciaio di Stato. Riva vuole indietro 800 miliardi dei 1.400 già pagati.
Altra questione, ma fortunatamente meno spinosa, l'uscita dell'Iri dalla Acciaierie di Cornigliano e dalla Lucchini siderurgica. Due aziende nelle quali l'Istituto di Via Veneto detiene una partecipazione di minoranza con una quota del 40%. Più complessa é sicuramente la dismissione di Cornigliano, non solo perchè il socio di maggioranza è Emilio Riva con cui è battaglia sulla vendita di Taranto, ma anche perchè ci sono problemi sul bilancio '94. Strettamente economica, invece, la questione con Lucchini Siderurgica, dove il 40% delle azioni è stato pagato, tre anni fa, 320 miliardi. Uscendo l'Iri che adesso è rappresentata dalla Sofinpar perderà almeno il 20% perchè la sua finanziaria non sottoscriverà l'aumento di capitale deciso dal socio di maggioranza.
Dai numeri alle aule giudiziarie. Resto ancora aperta la vicenda scoppiata la scorsa estate per delle presunte false fatturazioni. Vicenda per la quale il vertice dell'azienda bergamasca venne sospeso dalla magistratura, sospensione poi revocata dal Tribunale della libertà il 28 settembre dello scorso anno.