Nel puzzle del credito a posto un'altra tessera

La Stampa

Cesare Geronzi è una persona, gradevolissima. Colto, garbato, riservato. Il suo aplomb, decisamente anglosassone, stride persino in una Capitale abituata ad un milieu industrial-finanziario assia più flanellone

Cesare Geronzi è una persona, gradevolissima. Colto, garbato, riservato. Il suo aplomb, decisamente anglosassone, stride persino in una Capitale abituata ad un milieu industrial-finanziario assia più flanellone, fatto di trafficanti e intermediari di prebende politiche, di boiardi pubblici, di piccoli imprenditori, il tutto cementato dalle "colate" di palazzinari impenitenti. Per la storia è considerato, il presidente della Banca di Roma, uno dei più competenti bancari di questo Paese, insieme alla buonanima di Ferdinando Ventriglia, indimenticato padre-padrone-padrino del Banco di Napoli. Frutto della rigorosa scuole di Bankitalia, si è sempre e giustamente detto. Il paradosso è che sia Geronzi, sia Ventriglia, per la solita legge del contrappasso ma non solo, hanno profuso il proprio impegno senza raggiungere i risultati promessi.
Del tracollo del vecchio Banco di Napoli si sa più o meno tutto (benchè del passato di 'o Professore sia sappia assai meno, a cominciare dal famoso buco nero della "lista dei 500", eccellenti ma ignoti esportatori di valuta della Prima Repubblica). Delle difficoltà più recenti della Banca di Roma si sa altrettanto, a partire dalla montagna di "sofferenze" pari a quel che si dice a 10 mila miliardi, probabile frutto avvelenato della convivenza e dell'"assistenza" dell'istituto al già ricordato milieu romanesco. A Ventriglia il destino non ha concesso (posto che lui l'avesse davvero voluto) di riparare i danni e correggere gli errori del passato. Geronzi, viceversa, ha per fortuna tutto il tempo per farlo.
E allora la notizia che la Banca di Roma ha affidato a Mediobanca il progetto per un maxi-aumento di capitale da 4000 miliardi - che dovrebbe consentire l'abbattimento delle sofferenze, il rafforzamento patrimoniale, il congedo dallo scomodo e inutile azionista Iri e la privatizzazione attraverso la formazione di un nucleo duro di azionisti italiani e stranieri - non può che essere accolta con soddisfazione. Finalmente - dopo Banco di Napoli, Ambro-Cariplo, adesso anche Banco di Sicilia e Sicilcassa - va a posto un'altra tessera nel complicato puzzle bnacario di questo Paese. Era ora, perchè questa "tessera romana" del credito era parecchio sconnessa. Diciamo pure la verità, che si sente ripetere da anni ma che nessuno dice mai pubblicamente. E' stata un'operazione nata male: politicamente marchiata di andreottismo, assai sensata sul piano industriale, ma velleitaria per le modalità con le quali si è prodotto. La logica estrinseca, giusta, era quella delle grandi concentrazioni, di cui allora non c'era traccia in Italia; la logica intrinseca, sbagliata ma scontata in un Paese disabituato ai fallimenti come sanzione inflitta dal mercato a chi non ci sa stare, era quella del salvataggio. In generale le acquisizioni si fanno per rafforzare un gruppo, per renderlo più solido e competitivo. In quel caso - come oggi dimostra l'esigenza di una ricapitalizzazione di ben 4 mila miliardi - si sono sommate tre debolezze. E non ne è nata una forza. Ad un istituto come la Cassa di Risparmio di Roma, in discreta salute ma piccolo sul piano dimensionale, fu affidato un compito troppo grande: "ingoiare" due bocconi enormi, e oltre tutto assai rancidi, come il Banco di Santo Spirito e il Banco di Roma.
La "digestione" è stata lenta, e più volte s'è rischiata la crisi di rigetto. Nè poteva essere altrimenti. Capaldo e Geronzi hanno trovato di tutto, tra le pieghe dei bilanci di quei due istituti (si narra che nelle spese di rappresentanza del vertice del Banco di Roma all'Eur, per dire, spiccavano acquisti giornalieri di rose per qualche milione, non si sa alll'indirizzo di quale dama dei salotti capitolini). Ci hanno forse anche messo del loro, andandosi a cacciare in tutte le più infelici iniziative industriali dell'ultimo decennio, dalla Ferfin a Ciarrapico, dalla Federconsorzi agli scalcagnati progetti dell'editoria romana. E come se non bastasse, la Banca d'Italia gli ha messo sul piatto un'altra polpetta avvelenata, la traballante Bna allora del mitico conte Auletta (quello che portava il rotolo di soldi nei calzini ed esordiva alle assemblee di bilancio fregandosi le mani e dicendo "e pure stavolta abbiamo fatto un bel pò di sordarelli, eh!?").
Non poteva più funzionare, il progetto del "polo bancario romano", senza un intervento dall'esterno e senza iniezioni di capitali freschi. Geronzi l'ha capito in tempo. E mentre ha aperto con coraggio e per primo la dura vertenza-esuberi destinata a far scuola nel sistema e si è liberato di ridondanti zavorre come Interbanca, s'è affidato alle cure del solito Enrico Cuccia, col quale ha da sempre un rapporto di stima. Vedremo che ne verrà fuori. Ma è tutto buono ciò che serva a rinforzare i poli bancari. E soprattutto a scalfire il monolitico e insondabile potere delle Fondazioni.