Orsi & Tori
Milano Finanza
Non è certo la priorità assoluta o l'emergenza più grave, ma Silvio Berlusconi e Lamberto Dini non potranno di sicuro lasciar passare molto tempo senza mettere mano alla risistemazione del settore bancario, tanti e tali sono i casi scottanti che si stanno accumulando sui loro tavoli
Non è certo la priorità assoluta o l'emergenza più grave, ma Silvio Berlusconi e Lamberto Dini non potranno di sicuro lasciar passare molto tempo senza mettere mano alla risistemazione del settore bancario, tanti e tali sono i casi scottanti che si stanno accumulando sui loro tavoli.
Fra essi naturalmente vi è la nomina del direttore generale della Banca d'Italia, ma sulla questione Dini e Berlusconi hanno già espresso la loro linea: preservare l'autonomia della banca ma nello stesso tempo evitare che siano compiute scelte contro il governo. Il princiio discende un pò dal concetto migliore e più condivisibile espresso da Berlusconi sulla Rai: se è servizio pubblico, pur nell'indipendenza, non può essere contro la maggioranza di governo per partito preso. Questa impostazione porta inevitabilmente a scegliere fra personalità di sicura levatura culturale e tecnica senza nessuna forte connotazione di schieramento, né di area laica né di area cattolica, né tantomeno di questo o quel partito. Il nuovo consiglio superiore della Banca, a cui spetta la designazione formale, è stato appena letto e la scelta potrebbe avvenire entro la fine di giugno. Una volta Antonio Fazio e Silvio Berlusconi si sono già parlati sulla questione e le parole del presidente del consiglio sono state che al momento opportuno ne avrebbero riparlato a tre con il ministro del tesoro Dini, che, per statuto, deve emettere il decreto di nomina e quindi esprimere il suo consenso.
La scelta del direttore generale di Bankitalia è importante, ma, come si suol dire, è una questione ordinaria. Ben più pesanti sono le altre questioni: 1) l'intervento risanatore nella banche traballanti con in primo piano il Banco di Sicilia e la Banca Nazionale dell'Agricoltura, ma non solo; 2) la trasformazione o meno in spa del Monte di Paschi di Siena e la privatizzazione di Artigiancassa; 3) l'incoraggiamento di nuove aggregazioni per consentire alle principali banche itlaliane di raggiungere una dimensione europea; 4) lo sviluppo di più banche d'affari in concorrenza con Mediobanca; 5) l'evoluzione in senso europeo delle strategie di mercato dei vari istituti dopo il varo ormai pressochè ultimato della normativa che crea la figura della banca universale, con il recupero di effecienza al livello dei concorrenti continentali.
Sul risanamento dele banche traballanti, anche il presidente dell'Abi, Tancredi Bianchi, è convinto che debba intervenire a vario titolo un pò tutto il sistema. "Ancora non siamo certo al livello di intervento del Fondo di garanzia, ma la dimensione della massa monetaria amministrata da alcune banche in difficoltà è tale che un intervento di solidarietà deve avvenire in tempi stretti", ha spiegato a Milano Finanza in un'intervista pubblica dei giorni scorsi alla facoltà di economia di Modena.
In realtà le ipotesi di intervento si stanno già delineando e le due banche che oggi possono intervenire sono in primo luogo la Banca di Roma, che ha ampia capienza patrimoniale, e il Credito Italiano, che sta per varare un consistente aumento di capitale. L'analisi condotta sulle quattro banche consente di dire che l'operazione ideale è quella della Banca di Roma con la Bna, controllata finora dal conte Giovanni Auletta Armenise. Negli ultimi mesi la Bna ha perso quasi un punto di quota di mercato, scendendo al 2% circa. Le perdite che si stanno accumulando sono consistenti visto che, non avendo i ratios a posto per lo sviluppo, la bnaca è costretta a ridurre la propria attività mentre i costi fissi rimangono incomprimibili. La Banca d'Italia è in pieno allarme e la vigilanza stava per mandare un'ispezione. All'ultimo momento si è deciso di soprassedere per qualche settimana perchè, essendo quotata in borsa, la banca dovrà emanare a brevissimo la semestrale, rendendo pubblico il suo stato. A quel punto, o Auletta sarà in grado di ricapitalizzare la bnaca, magari grazie a un partner disponibile ad entrare in minoranza (ipotesi assai improbabile), o dovrà cedere la maggioranza. E la Banca di Roma è lì pronta a compiere l'atto di acquisto, viste le favorevolissime integrazioni che sembrano possibili. Per esempio, la Bna è relativamente forte in Puglia e in Emilia dove la Banca di Roma ha spazio per rafforzarsi. L'ipotesi iniziale non è assolutamente quella delle fusione ma delle presa in gestione, anche se il fatto che le due banche abbiano la sede centrale a Roma esclude già in partenza le drammatiche problematiche di gestione del personale che invece nascerebbero in un'ipotesi di integrazione fra la Bna e il Credit, l'una a Roma e l'altra a Milano.
Sulla trasformazione del Mps in spa il clima si fa sempre più arroventato. Il management della banca, con il provveditore Vincenzo Pennarola in testa, comprende bene che l'istituto non ha più margini patrimoniali sufficienti per continuare a crescere senza l'apporto di capitali dall'estero. La proroga della legge Amato consente ancora di effettuare l'operazione spa con il massimo vantaggio possibile, ma a Siena continuano a non sentirci. Sopratttutto entrano in fibrillazione quando leggono il decreto che assegna al ministro del tesoro la possibilità di imporre all'eventuale Fondazione Mps, così come a tutte le fondazioni bancarie, di scendere al di sotto del 51% nell'azienda-banca. I senesi, insomma, temono che la trasformazione in spa sia pronuba dello scippo del controllo della banca da parte delle città. In questo clima riprende così quota la teoria secondo la quale in realtà il Mps, oggi nella forma giuridica di ente pubblico, è di proprietà di Comune di Siena e che quindi l'eventuale trasformazione in spa dovrebbe consentire al Comune e non alla Fondazione di introitare i ricvi di possibili cessioni di quote di minoranza. Così il Comune si doterebbe dei mezzi per seguire eventuali aumenti di capitale.
Questa teoria indica chiaramente le difficoltà a cui presto si troverà di fronte il fiorentino Dini, il quale, per riuscire nell'arduo compito di non far condannare il Mps a diventare vieppiù una cassa rurale, dovrà sfoderare tutte le sue capacità tecniche e diplomatiche, quelle stesse che proprio in questi giorni ha messo al servizio del governo per le due missioni a Bonn (dove ha dovuto ricucire lo strappo creato dal governo Ciampi) e poi a Washington in preparazione del G7 prossimo a Napoli. Certamente Dini tiene sia a un futuro sviluppo dell'Mps sia a non scontrarsi con la città, vista la profondità delle radici senesi della banca. Dovrà quindi riuscire a trovare una soluzione originale, anche se molti a Siena temono che prima o poi, di fronte agli indugi, il governo emetta un decreto che, a differenza della legge Amato (la quale consentiva libere scelte), obblighi tutti gli enti bancari a trasformarsi in spa. Questo timore, che Milano Finanza ha potuto constatare direttamente in molti ambienti responsabili di Siena, dovrebbe consigliare anche il Comune ad ammorbidire le posizioni e ad aprire quantomeno una trattativa.
Un'analisi dell'Abi che il presidente Bianchi cita spesso indica come sia in Germania, che in Francia che in Gran Bretagna, le prime tre-quattro banche controllino il 50% circa del mercato. Mentre per arrivare a coprire la metà del mercato in Italia occorre prendere in considerazione le prime 11 banche. Se si tiene conto poi della dimensione assia più ampia dei tre mercati europei rispetto a quelli italiani si capisce come non solo il Monte dei paschi debba trasformarsi in spa, ma come anche debbano essere messa nel conto molte altre fusioni e aggregazioni fra varie banche. Del resto l'unica operazione razionale in tal senso resta quella che ha fatto nascere la Banca di Roma e si sa bene come ciò sia potuto avvenire grazie alla lungimiranza e alla determinazione di due uomini come Pellegrino Capaldo e Cesare Geronzi, aiutati certamente da un uomo di amplissime vedute come l'allora ministro del tesoro Guido Carli. I banchieri italiani che pensassero di poter rimanere fuori da processi di aggregazione e fusione o sno miopi o condanneranno la loro banca a un sicuro destino di non sviluppo e quindi di regresso.
La polemica che si è scatenata contro Mediobanca e il suo strapotere ha fatto perdere di vista a tutti le ragioni per le quali l'istituto guidato da Enrico Cuccia ha potuto dominare per oltre 40 anni il mercato. Esse sono due e molto semplici: 1) lo statuto di Mediobanca: esso è una sorta di privativa e di esclusiva in quanto, in pieno vigore della legge bancaria del '36 che proibiva nella maniera più categorica l'esistenza di banche miste, Raffaele Mattioli e Cuccia riuscirono a ottenere l'omologazione da parte del tribunale e di Bankitalia di uno statuto che consentiva sia il credito a medio termine che l'assunzione di partecipazioni, configurando di fatto la nascita dell'unica banca d'affari del paese; 2) la spartizione di competenze che il cattolico Alcide De Gasperi concordò con il laico Ugo La Malfa, in base al quale l'area del denato e delle banche rimaneva di competenza del mondo laico, ritenendo De Gasperi i cattolici assolutamente maldestri in questa attività. Ma tutti sanno che La Malfa veniva dalla Comit e che in Comit e Mediobanca era concentrato metà del vecchio Partito d'azione o comunque di quel drappello elitario di laici che ha guidato sino a oggi il sistema bancario nazionale.
Il fatto che Mediobanca abbia potuto diventare strapotente è dipeso dal fatto che i partiti di governo, e in primo luogo la Dc, le hanno lasciato per più di 40 anni l'esclusiva del mestiere di banchieri d'affari varando solo di recente una normativa che consentiva la creazione di banche capaci di assumere partecipazioni nel capitale delle società. In effetti da qualche mese, sotto la spinta di Carlo che impose la scelta, tutte le banche, grazie alla trasformazione in banche universali, possono svolgere attività di banca d'affari. La normativa per fare concorrenza a Mediobanca quindi esiste: continuano a mancare le professionalità e le competenze specifiche, che naturalmente non si acquisiscono per decreto. Per poterne favorire lo sviluppo, il governo dovrà però riservare almeno una parte di attività di privatizzazione alle banche italiane. La formula migliore, che è anche gradita dalle grandi investmente bank estere, è di affiancare a queste ultime istituti italiani. In modo che si formino le esperienze per una futura attività autonoma.
All'Abi accarezzano la teoria che anche in Italia si debba passare da apporti bancari plurimi all'hausbank, cioè alla scelta di una banca sola che offra tutti i servizi. L'idea discende dal modello della banca universale tedesca e il presidente Bianchi ne appare affascinato. Ma è sicuro, ammesso che questa sia l'idea giusta, che prima di arrivare a tanto, molto denaro e molti prestiti dovranno scorrere sotto i ponti. Ciò non toglie che se le banche italiane non recupereranno tempestivamente efficienza attraverso radicali mutamenti nelle strategie di marketing il loro futuro si presenterà assai nero. Se finora la discesa delle banche straniere nella Penisola non è stata un'invasione e anzi si è espressa in modo assai contenuto, alla ripresa dell'integrazione europea esssa potrebbe diventare travolgente per molti istituti italiani incapaci di scegliere.
Fra essi naturalmente vi è la nomina del direttore generale della Banca d'Italia, ma sulla questione Dini e Berlusconi hanno già espresso la loro linea: preservare l'autonomia della banca ma nello stesso tempo evitare che siano compiute scelte contro il governo. Il princiio discende un pò dal concetto migliore e più condivisibile espresso da Berlusconi sulla Rai: se è servizio pubblico, pur nell'indipendenza, non può essere contro la maggioranza di governo per partito preso. Questa impostazione porta inevitabilmente a scegliere fra personalità di sicura levatura culturale e tecnica senza nessuna forte connotazione di schieramento, né di area laica né di area cattolica, né tantomeno di questo o quel partito. Il nuovo consiglio superiore della Banca, a cui spetta la designazione formale, è stato appena letto e la scelta potrebbe avvenire entro la fine di giugno. Una volta Antonio Fazio e Silvio Berlusconi si sono già parlati sulla questione e le parole del presidente del consiglio sono state che al momento opportuno ne avrebbero riparlato a tre con il ministro del tesoro Dini, che, per statuto, deve emettere il decreto di nomina e quindi esprimere il suo consenso.
La scelta del direttore generale di Bankitalia è importante, ma, come si suol dire, è una questione ordinaria. Ben più pesanti sono le altre questioni: 1) l'intervento risanatore nella banche traballanti con in primo piano il Banco di Sicilia e la Banca Nazionale dell'Agricoltura, ma non solo; 2) la trasformazione o meno in spa del Monte di Paschi di Siena e la privatizzazione di Artigiancassa; 3) l'incoraggiamento di nuove aggregazioni per consentire alle principali banche itlaliane di raggiungere una dimensione europea; 4) lo sviluppo di più banche d'affari in concorrenza con Mediobanca; 5) l'evoluzione in senso europeo delle strategie di mercato dei vari istituti dopo il varo ormai pressochè ultimato della normativa che crea la figura della banca universale, con il recupero di effecienza al livello dei concorrenti continentali.
Sul risanamento dele banche traballanti, anche il presidente dell'Abi, Tancredi Bianchi, è convinto che debba intervenire a vario titolo un pò tutto il sistema. "Ancora non siamo certo al livello di intervento del Fondo di garanzia, ma la dimensione della massa monetaria amministrata da alcune banche in difficoltà è tale che un intervento di solidarietà deve avvenire in tempi stretti", ha spiegato a Milano Finanza in un'intervista pubblica dei giorni scorsi alla facoltà di economia di Modena.
In realtà le ipotesi di intervento si stanno già delineando e le due banche che oggi possono intervenire sono in primo luogo la Banca di Roma, che ha ampia capienza patrimoniale, e il Credito Italiano, che sta per varare un consistente aumento di capitale. L'analisi condotta sulle quattro banche consente di dire che l'operazione ideale è quella della Banca di Roma con la Bna, controllata finora dal conte Giovanni Auletta Armenise. Negli ultimi mesi la Bna ha perso quasi un punto di quota di mercato, scendendo al 2% circa. Le perdite che si stanno accumulando sono consistenti visto che, non avendo i ratios a posto per lo sviluppo, la bnaca è costretta a ridurre la propria attività mentre i costi fissi rimangono incomprimibili. La Banca d'Italia è in pieno allarme e la vigilanza stava per mandare un'ispezione. All'ultimo momento si è deciso di soprassedere per qualche settimana perchè, essendo quotata in borsa, la banca dovrà emanare a brevissimo la semestrale, rendendo pubblico il suo stato. A quel punto, o Auletta sarà in grado di ricapitalizzare la bnaca, magari grazie a un partner disponibile ad entrare in minoranza (ipotesi assai improbabile), o dovrà cedere la maggioranza. E la Banca di Roma è lì pronta a compiere l'atto di acquisto, viste le favorevolissime integrazioni che sembrano possibili. Per esempio, la Bna è relativamente forte in Puglia e in Emilia dove la Banca di Roma ha spazio per rafforzarsi. L'ipotesi iniziale non è assolutamente quella delle fusione ma delle presa in gestione, anche se il fatto che le due banche abbiano la sede centrale a Roma esclude già in partenza le drammatiche problematiche di gestione del personale che invece nascerebbero in un'ipotesi di integrazione fra la Bna e il Credit, l'una a Roma e l'altra a Milano.
Sulla trasformazione del Mps in spa il clima si fa sempre più arroventato. Il management della banca, con il provveditore Vincenzo Pennarola in testa, comprende bene che l'istituto non ha più margini patrimoniali sufficienti per continuare a crescere senza l'apporto di capitali dall'estero. La proroga della legge Amato consente ancora di effettuare l'operazione spa con il massimo vantaggio possibile, ma a Siena continuano a non sentirci. Sopratttutto entrano in fibrillazione quando leggono il decreto che assegna al ministro del tesoro la possibilità di imporre all'eventuale Fondazione Mps, così come a tutte le fondazioni bancarie, di scendere al di sotto del 51% nell'azienda-banca. I senesi, insomma, temono che la trasformazione in spa sia pronuba dello scippo del controllo della banca da parte delle città. In questo clima riprende così quota la teoria secondo la quale in realtà il Mps, oggi nella forma giuridica di ente pubblico, è di proprietà di Comune di Siena e che quindi l'eventuale trasformazione in spa dovrebbe consentire al Comune e non alla Fondazione di introitare i ricvi di possibili cessioni di quote di minoranza. Così il Comune si doterebbe dei mezzi per seguire eventuali aumenti di capitale.
Questa teoria indica chiaramente le difficoltà a cui presto si troverà di fronte il fiorentino Dini, il quale, per riuscire nell'arduo compito di non far condannare il Mps a diventare vieppiù una cassa rurale, dovrà sfoderare tutte le sue capacità tecniche e diplomatiche, quelle stesse che proprio in questi giorni ha messo al servizio del governo per le due missioni a Bonn (dove ha dovuto ricucire lo strappo creato dal governo Ciampi) e poi a Washington in preparazione del G7 prossimo a Napoli. Certamente Dini tiene sia a un futuro sviluppo dell'Mps sia a non scontrarsi con la città, vista la profondità delle radici senesi della banca. Dovrà quindi riuscire a trovare una soluzione originale, anche se molti a Siena temono che prima o poi, di fronte agli indugi, il governo emetta un decreto che, a differenza della legge Amato (la quale consentiva libere scelte), obblighi tutti gli enti bancari a trasformarsi in spa. Questo timore, che Milano Finanza ha potuto constatare direttamente in molti ambienti responsabili di Siena, dovrebbe consigliare anche il Comune ad ammorbidire le posizioni e ad aprire quantomeno una trattativa.
Un'analisi dell'Abi che il presidente Bianchi cita spesso indica come sia in Germania, che in Francia che in Gran Bretagna, le prime tre-quattro banche controllino il 50% circa del mercato. Mentre per arrivare a coprire la metà del mercato in Italia occorre prendere in considerazione le prime 11 banche. Se si tiene conto poi della dimensione assia più ampia dei tre mercati europei rispetto a quelli italiani si capisce come non solo il Monte dei paschi debba trasformarsi in spa, ma come anche debbano essere messa nel conto molte altre fusioni e aggregazioni fra varie banche. Del resto l'unica operazione razionale in tal senso resta quella che ha fatto nascere la Banca di Roma e si sa bene come ciò sia potuto avvenire grazie alla lungimiranza e alla determinazione di due uomini come Pellegrino Capaldo e Cesare Geronzi, aiutati certamente da un uomo di amplissime vedute come l'allora ministro del tesoro Guido Carli. I banchieri italiani che pensassero di poter rimanere fuori da processi di aggregazione e fusione o sno miopi o condanneranno la loro banca a un sicuro destino di non sviluppo e quindi di regresso.
La polemica che si è scatenata contro Mediobanca e il suo strapotere ha fatto perdere di vista a tutti le ragioni per le quali l'istituto guidato da Enrico Cuccia ha potuto dominare per oltre 40 anni il mercato. Esse sono due e molto semplici: 1) lo statuto di Mediobanca: esso è una sorta di privativa e di esclusiva in quanto, in pieno vigore della legge bancaria del '36 che proibiva nella maniera più categorica l'esistenza di banche miste, Raffaele Mattioli e Cuccia riuscirono a ottenere l'omologazione da parte del tribunale e di Bankitalia di uno statuto che consentiva sia il credito a medio termine che l'assunzione di partecipazioni, configurando di fatto la nascita dell'unica banca d'affari del paese; 2) la spartizione di competenze che il cattolico Alcide De Gasperi concordò con il laico Ugo La Malfa, in base al quale l'area del denato e delle banche rimaneva di competenza del mondo laico, ritenendo De Gasperi i cattolici assolutamente maldestri in questa attività. Ma tutti sanno che La Malfa veniva dalla Comit e che in Comit e Mediobanca era concentrato metà del vecchio Partito d'azione o comunque di quel drappello elitario di laici che ha guidato sino a oggi il sistema bancario nazionale.
Il fatto che Mediobanca abbia potuto diventare strapotente è dipeso dal fatto che i partiti di governo, e in primo luogo la Dc, le hanno lasciato per più di 40 anni l'esclusiva del mestiere di banchieri d'affari varando solo di recente una normativa che consentiva la creazione di banche capaci di assumere partecipazioni nel capitale delle società. In effetti da qualche mese, sotto la spinta di Carlo che impose la scelta, tutte le banche, grazie alla trasformazione in banche universali, possono svolgere attività di banca d'affari. La normativa per fare concorrenza a Mediobanca quindi esiste: continuano a mancare le professionalità e le competenze specifiche, che naturalmente non si acquisiscono per decreto. Per poterne favorire lo sviluppo, il governo dovrà però riservare almeno una parte di attività di privatizzazione alle banche italiane. La formula migliore, che è anche gradita dalle grandi investmente bank estere, è di affiancare a queste ultime istituti italiani. In modo che si formino le esperienze per una futura attività autonoma.
All'Abi accarezzano la teoria che anche in Italia si debba passare da apporti bancari plurimi all'hausbank, cioè alla scelta di una banca sola che offra tutti i servizi. L'idea discende dal modello della banca universale tedesca e il presidente Bianchi ne appare affascinato. Ma è sicuro, ammesso che questa sia l'idea giusta, che prima di arrivare a tanto, molto denaro e molti prestiti dovranno scorrere sotto i ponti. Ciò non toglie che se le banche italiane non recupereranno tempestivamente efficienza attraverso radicali mutamenti nelle strategie di marketing il loro futuro si presenterà assai nero. Se finora la discesa delle banche straniere nella Penisola non è stata un'invasione e anzi si è espressa in modo assai contenuto, alla ripresa dell'integrazione europea esssa potrebbe diventare travolgente per molti istituti italiani incapaci di scegliere.