Orsi e Tori

Milano Finanza

C'è un fuoco che cova sotto la cenere e il governo Prodi non può ignorarlo, avendo fra i suoi ministri ex bnachieri centrali del calibro di Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini.

C'è un fuoco che cova sotto la cenere e il governo Prodi non può ignorarlo, avendo fra i suoi ministri ex bnachieri centrali del calibro di Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini. Questo fuoco è lo stato di salute del sistema bancario italiano, o meglio di buona parte di esso perchè in verità ci sono anche piccole e medie banche private che godono di ottima salute. La maggior parte, invece, ha bisogno di un processo di profonda ristrutturazione così come è avvenuto nel recente passato con il sistema industriale, che proprio le banche hanno in buona parte sostenuto.
E' per questo che da alcune settimane Milano Finanza ha aperto un dibattito a più voci. Finora hanno parlato l'amministratore delegato della Comit, Enrico Beneduce, il presidente del Sanpaolo, Gianni Zandano, e il presidente della Bnl, Mario Sarcinelli. All'interno di questo numero interviene Cesare Geronzi, presidente della Banca di Roma, che resto l'unico caso riuscito di integrazione fra più banche con l'obiettivo di creare un istituto in grado, per dimensioni, di competere su base europea.
Proprio perchè ha vissuto ben due fusioni (Cassa di Risparmio di Roma e Banco di Santo Spirito prima, nuova banca e Banco di Roma dopo) Geronzi è nelle condizioni di essere più perentorio degli altri, ma ciò che colpisce tutti e tre gli interventi è la sostanziale identità di vedute nell'analisi. Tutti sono concordi nel ritenere che non possa essere più dilazionato il problema degli esuberi di personale. Qualcuno, come Sarcinelli, è giunto a indicare anche un numero: almeno 30 mila. Qualcun altro, come Beneduce, è scettico sull'ipotesi di una specie di cassa integrazione per il pericolo di premiare i meno efficienti, ma anche il giovane numero due della Banca commerciali italiana denuncia (in sostanziale accordo con Geronzi) due cause precise di questa situazione: la necessità di raggiungere una dimensione maggiore per ciascun istituto, che inevitabilmente crea con le fusioni posizioni doppie da eliminare, e l'arrivo, in dosi massicce, delle nuove tecnologie che sposteranno al domicilio del cliente, sul suo computer, la maggior parte dell'attività. 
Ad aggravere in Italia questa situazione, che anche altri paesi hanno vissuto, c'è la sfasatura fra i tempi della completa liberalizzazione del sistema bancario e l'arrivo di nuove tecnologie. Per decenni le banche italiane sono state totalmente sotto la tutela e il condizionamente della Banca d'Italia. La nascita di nuove banche era praticamente impossibile, chi voleva aprire nuovi sportelli doveva sottostare al dirigismo di Banca d'Italia, che ogni anno varava il pomposo piano sportelli e solo chi, a suo giudizio, meritava poteva tirar su la saracinesca di una nuova agenzia. In cambio di questo potere assoluto sulle scelte strategiche delle singole banche, l'istituto centrale garantiva a tutte di poter vivere in regime di non concorrenza, ognuno padrone in un determinato territorio, mai esposto all'attacco dei concorrenti stranieri.
Questa autarchia dorata non solo ha generato anomalie gravissime come la quasi totale incultura del sistema bancario, ma ha anche intorpidito i muscoli, annebbiando la lucidità di veduta. Quando Guido Carli, che pure aveva governato per anni questo regime autarchico, arrivò sulla poltrona di ministro del tesoro, si rese subito conto che l'Europa non avrebbe più consentito un tale isolamento e un tale regime protetto. Per questo come prima scelta distrusse il modello di gruppo polifunzionale che i suoi eredi in via Nazionale avevano amorevolmente coltivato, e disse chiaro e tondo che andando in Europa, inevitabilmente, avrebbe vinto il modello tedesco della banca universale.
Carli, però, sapeva benissimo che le banche italiane non erano pronte e durante i suoi ultimi mesi di governo mi confessò più volte questo suo tormento. Capiva che la distruzione del modello polifunzionale avrebbe imposto il rientro dentro la banca dele varie attività del parabancario, che le holding del parabancario avrebbero dovuto essere smontate (come in effetti è avvenuto e sta avvenendo) e che tutto questo avrebbe fatto perdere altro tempo sul cammino dell'efficienza. Ma certo la consapevolezza di ciò non poteva fermarlo e non lo fermò nel varo della banca universale.
Tuttavia, ciò che più lo angustiava era vedere appunto lo sfasamento temporale fra la liberalizzazione e l'arrivo delle nuove tecnologie. Con la liberalizzazione, infatti, tutte le banche si sono buttate a capofitto nell'espansione  e capillarizzazione sul territorio con l'apertura a raffica di sportelli, diventati da 14 mila a 21 mila, proprio nel momento in cui, anche ai meno accorti, appariva evidente che le nuove tecnologie avrebbero consentito di trasferire presso il cliente molto lavoro destinato alle agenzie.
In sostanza, da parte delle banche c'è stata una sorta di ineluttabile errore: gonfiare (o meglio non tagliare) gli organici proprio mentre la maturazione della telematica lo rendeva possibile. Ma, abituati com'eravamo all'astinenza di sportelli, nessuno ha saputo resistere. E via ad aprire filiali.
Colpa principale dei banchieri? Non direi. Quando il mercato diventa aperto, è decisivo conquistare un numero sempre maggiore di clienti, quindi la corsa agli sportelli non è di per sè censurabile. Colpa piuttosto di una non tempestiva pianificazione dela liberalizzazione da parte della banca centrale, al cui volere tuttavia le singole banche si sono ben volentieri piegate in cambio della tranquillità e di una facile redditività sulle differenze fra tassi attivi e tassi passivi.
Questi ritardi vengono pagati oggi dal sistema bancario e dal paese in generale. Se a essi poi si somma la struttura sostanzialmente pubblica, o meglio partitica, degli assetti di comando del sistema bancario, non è difficile comprendere perchè oggi la crisi delle banche sta diventando scottante. Con una visione di ampio respiro, fu l'attuale presidente dell'Antitrust, Giuliano Amato, durante il sofferto mandato come ministro del tesoro (testimonia questa sofferenza un suo bellissimo libro), a tentare di modificare dalle radici la struttura pubblica e partitica delle banche. La legge che porta il suo conteneva poi incentivi fondamentali per favorire le fusioni e le integrazioni, ma a parte il caso della Banca di Roma è stata utlizzata quasi esclusivamente per scorporare l'azienda banca (soprattutto casse di risparmio) dalle fondazioni e dagli enti. Solo raramente, queta positiva evoluzione è stata messa a frutto e molto spesso, invece, si è assistito alla nascita di entità prive di strategia, al punto che lo stesso Amato si è pentito di essere stato il padre di entità così amorfe. In realtà, come spiega bene Geronzi nell'intervista all'interno, non si può generalizzare e soprattutto non tutte le entità che un tempo gestivano direttamente l'attività bancaria e ora possiedono pacchetti di comando o la totalità di banche hanno natura politica. E' il caso, proprio, dell'Ente Cassa di risparmio di Roma, che è un'associazione di diritto privato. Quindi, in questi casi è assolutamente improprio parlare di banca da privatizzare.
Ma Geronzi lancia anche un'idea concreta sul modo in cui gli enti associazione o fondazione potrebbero pian piano diversificare il loro portafoglio, cessando di essere puri contenitori di pacchetti azionari di comando di banche: rivela, infatti, che quando con l'ex presidente Pellegrino Capaldo proposero a Mediobanca e alle altre due ex bin di fare un'offerta a fermo per il pacchetto di maggioranza della Stet, a comprare non doveva essere la bnaca ma l'Ente cassa. Quell'offerta, in effetti, non è mai stata ritirata, quindi potrebbe ritrovare una sua vitalità in occasione della privatizzazione della Stet, ma ha un valore soprattutto di esempio di come, in attesa dei fondi pensione, si possano attivare capitali cospicui per realizzare le privatizzazioni.
Il difetto principale che ha generato la legge Amato riguarda l'enorme gonfiamento dei patrimoni in termini contabili e quindi la caduta relativa della redditività in rapporto a questi stessi patrimoni. Ciò incide sugli indici che vengono presi in condizioni dagli analisti e contribuisce a deprimere il settore in borsa, ma non è certo questo il punto centrale chce dovrebbe affrontare una nuova legge Amato di cui da più parti si reclama il varo appunto per affrontare anche la questione degli esuberi. Con una nuova norma il governo dovrebbe porsi l'obiettivo di un vero e proprio progetto paese per riportare il settore bancario a livelli di competitività internazionali. Esplicito, in questo senso, l'auspicio di Sarcinelli nell'intervista a Milano Finanza di due settimane fa: costruire, entro il '99, almeno due nuovi raggruppamenti di livello europeo. Per far ciò, oltre che una nuova legge Amato, ci vuole uno spirito imprenditoriale analogo a quello mostrato da Capaldo e Geronzi, che partendo da una relativamente piccola entità, ma con buona redditività, come la Cassa di Roma, hanno creato un colosso. Il coraggio imprenditoriale è consistito nel fondere con la banca originaria due istituti traballanti come il Santo Spirito e il Banco di Roma, realizzando così contemporaneamente un progetto di aggregazione e il salvataggio, di fatto, di due banche in difficoltà.
Analogo spirito industriale, anche se per loro fortuna partendo da istituti di credito molto forti ed efficienti, stanno mostrando i presidenti della Cassa di Risparmio di Torino, Enrico Filippi, e della Cassa di risparmio di Verona, Paolo Biasi. Costruendo un ideale ponte fra Est e Ovest che salta a piè pari il separatismo di Umberto Bossi, hanno concepito l'unificazione operativa delle due banche attraverso la creazione di un'unica holding, che sarà partecipata pariteticamente dalle due fondazioni, le quali (a differenza di altri esperimenti sfortunati) non avranno più nessun interesse diretto nella banca. La gestione della banca stessa sarà così unitaria, mnetre gli aggiustamenti patrimoniali avverranno attraverso la distribuzione in maniera differenziata alle due fondazioni di azioni della holding senza diritto di voto. Ciò, però, sarà possibile perchè a livello imprenditoriale c'è identità di vedute e quindi, rispetto al disegno industriale da realizzare, passano in secondo piano i campanili.
E' indispensabile che il governo faccia tesoro sia dell'esperienza Banca di Roma sia di quella Crt-Cassa di Verona e con coraggio affronti il dossier banche per varare entro pochissimo tempo un progetto paese. Quale governo, con Ciampi e Dini dentro, potrebbe avere competenze migliori?

P.S. Devo chiedere di nuovo scusa ai lettori se dedico ancora un pò di spazio a una vicenda personale. Ma lo faccio perchè è un esempio del livello bassissimo toccato dal'informazione in Italia e della strumentalizzazione che pochi potenti (ancora per quanto?) fanno dei mezzi di informazione. E' successo che la mattina di giovedì 13 si sia tenuta presso il tribunale di Milano l'udienza preliminare per la querela che Carlo De Benedetti ha presentato contro di me nei  mesi scorsi. De Benedetti lamenta di essere stato diffamato da questa frase di un mio Orsi & Tori: "...risulta che lal Consob stia esaminando attentamente, con l'occhio puntato su De Benedetti, prima la vendita allo scoperto e poi il riacquisto a prezzi molto più bassi di 120 milioni di titoli Olivetti transitati in buona parte per l'Ubs: il guadagno è stato stimato pari all'impegno diretto dell'Ingegnere per 50 miliardi di lire nell'aumento di capitale Olivetti".
Non entro nel merito della fondatezza di quanto ho scritto e dell'esercizio del diritto di cronaca, visto che la notizia dell'indagine Consob è stata riportata come vera da molti altri giornali. E non tiro neppure in ballo casi precedenti e successivi nei quali l'ingegner De Benedetti ha fatto mostra delle sue qualità di trasparenza verso il mercato (basterebbe la recente censura della Consob, resa pubblica nei giorni scorsi, o la comunicazione di dati risultati non veritieri agli analisti).
Il problema è molto più circoscritto: di fronte alla ovvia decisione del gip nell'udienza preliminare di andare al dibattimento per esaminare i fatti, De Benedetti ha preso la risabile e patetica decisione di far emettere un comunicato trionfante al suo portavoce: "E' con soddisfazione...".
Soddisfazione per che cosa? Perchè il tribunale va a esaminare i fatti di una querela di parte, nella quale potrebbe anche succedere che i magistrati debbano aprire altri procedimenti d'ufficio?
Per Repubblica: il comunicato di De Benedetti è diventata una notizia con questo titolo: "Panerai a giudizio per accuse a Olivetti". E poi ben 40 righe 40 di banalità, di cui una e mezzo soltanto tratta del comunicato da me rilasciato e trasmesso alle agenzie. Si racconta che per la redazione della Repubblica e prima ancora dell'Espresso, le querele fossero come tante decorazioni sul campo. Come cambiano i tempi.
Per fortuna i mercati non sono più una dimensione nazionale e dopo l'uscita di Repubblica ho ricevuto due telefonate da grandi organi di informazione internazionali. Per esempio dallo staff di Bloomberg, mi hanno fatto sapere che "da tempo tengono sotto controllo ogni mossa di De Benedetti, visto come tratta gli azionisti e visti i dati che fornisce agli analisti".
Udienza il 3 dicembre.