Mentre il Palazzo parla e litiga esplodono le galassie del credito
La Stampa
Da una parte i cattolici dall’altra il gruppo Imi e poi la Banca di Roma. In mezzo il business da migliaia di miliardi delle privatizzazioni
Volete sapere che cosa sarà veramente quest’Italia tormentata tra un anno o tra un anno o tra un lustro? Per favore, siate furbi, e non chiedetelo a D’Alema o a Berlusconi, a Prodi o a Casini e, tantomeno, a Fini o a Bertinotti.
Perché sta capitando che, mentre la politica si consuma allegramente, anzi tristemente, intorno alle date elettorali (fra tre mesi o fra sei mesi?), dietro i tavoli delle regole, nei meticci ambulacri giudiziari, nelle comiche contrapposizioni massmediali, il capitalismo italiano si ristruttura alla grande, zitto zitto, silenzioso e sotterraneo come una talpa, quando può senza fare i conti con nessuno, né il Parlamento, né tantomeno, i partiti, forse apparecchiando sul serio quei Poteri Forti che Pinuccio Tatarella, anima buona del postfascismo, vedeva erroneamente esplicitati in una specie di gita aziendale in Mediterraneo a bordo del panfilo «Britannia» cui partecipava, inconsapevole, un modesto middle management statale e finanziario, per discutere delle privatizzazioni di aziende pubbliche.
Prendete, per capire, «Il Corriere della Sera» di ieri,a pagina 12: in carattere da clausola assicurativa, troverete un annuncio a pagamento asettico e incomprensibile ai più ma che, se accuratamente compulsato, rivelerà, in parole povere, che l’Istituto Bancario San Paolo di Torino uscirà dall’azionariato dell’Ambroveneto, il quale a sua volta con Crt e Cassa di Verona darà luogo a un Polo bancario di ispirazione cattolica, riunendo tutto quel mondo, insomma, che a Brescia come a Milano, vede in Giovanni Bazoli un leader non soltanto finanziario, ma anche – come dire? – etico. Insomma, una Galassia, come si dice oggi nel ridondante lessico bancario.
Gianni Zandano, capo del San Paolo, antico sodale di De Mita e della sinistra democristiana, lascia, a sua volta, l’Ambrosiano, a quanto pare d’accordo con il presidente del Consiglio Dini e col governatore della Banca d’Italia Fazio per concentrare le sue risorse disponibili nell’intesa con l’Imi, la Cariplo, il Monte dei Paschi di Siena e il gruppo assicurativo dell’Ina, grande ex feudo andreottiano, oggi nelle mani di Sergio Siglienti, un laico imparentato coi Berlinguer, che però, ha adesso qualche motivo di risentimento nei confronti di Enrico Cuccia.
Complicato? Può darsi. Ma ancora più difficile è capire a che scopo tutto ciò avvenga. L’Imi – se vogliamo riassumere all’osso – dispone di 5000 miliardi di free capital, che tradotto in italiano, vuol dire mezzi liquidi da impegnare, magari, in privatizzazioni di aziende pubbliche, con tutto ciò che questo comporta in termini di futuro potere, se non di utili.
Siamo così – se vogliamo tenere il conto – già a due Galassie finanziarie orientate al profitto, una che fa capo a Bazoli, cattolico pio e osservante, l’altra che si muove introno a Zandano, ex esponente della dc consociativa e «di sinistra», come direbbe Lucio Dalla, che peraltro, l’associava a una «puttana». Ma attenzione, queste classificazioni, queste etichette tradizionali, non sono più cogenti come un tempo – cattolici di destra, cattolici di sinistra – perché, nel vuoto della politica che annaspa alla ricerca di una data per votare e di una qualsiasi legittimazione sensata, non è più questo che fa status, almeno per nessuno che badi alla concretezza degli affari.
Del resto, non è cattolica, sulla carta, anche la galassia che fa capo a Pellegrino Capaldo, grande curatore di interessi terreni del Vaticano, e Cesare Geronzi, più terrenamente assai vicino al presidente del Consiglio in carica Lamberto Dini? Per la verità, è proprio la Galassia del Centro Italia a porsi, in questo momento, come la più attiva e spregiudicata. Avrebbero mai potuto Zandano o Bazoli montare un’operazione come quella che ha tolto dai guai aziendali l’ex e forse prossimo presidente del Consiglio? Forse sì, ma nessuno come Capaldo e Geronzi ha capito che, in questo momento, banca e finanza non hanno più bisogno di precisi referenti politici, semplicemente perché, nel vuoto della politica, sono magnificamente autoreferenziali: basta un grande referente istituzionale, che, se per Capaldo è la gerarchia ecclesiastica, per Geronzi è il presidente del consiglio in persona. Pro tempore? Certo, ma chissà per quanto tempo.
Bisognerebbe chiedere a Fabio Tamburini, giornalista di «Repubblica» che ne ha scritto una monumentale biografia, come prende tutto questo Enrico Cuccia, antico capo carismatico di Mediobanca, l’unica Galassia con trade mark depositato, e, per stare alla pigrizia giornalistica, Gran Sacerdote della finanza laica. Si dice che i suoi rapporti con la coppia Capaldo-Geronzi siano squisiti. Che quelli con Bazoli siano civili. Che con Zandano, in fondo, si salvano le forme, pur con qualche freddezza. Ma che ci sarà di vero? Anche i più strenui sponsor di Mediobanca dicono sempre, come per contratto, «ben vengano altre grandi banche d’affari», ma Cuccia come vede e come giudica, in realtà, tanti e tanto disinibiti concorrenti, il proliferare di galassie più o meno attendibili? Per quanto potrà durare, poi, l’entente cordiale con Geronzi, che un po’ assatanato, mette le mani dappertutto?
Il vecchio ordine, insomma, s’è sfaldato, il controllo politico degli antichi partiti non c’è più, almeno nella forma asfissiante che il sistema bancario ha conosciuto per interi lustri, i nuovi protagonisti non sanno neanche, se vogliamo dirlo, da dove si comincia per controllare il potere bancario e finanziario: prova ne sia Berlusconi, che ad esso ha dovuto affidarsi per sistemare, provvisoriamente, le sue faccende aziendali, mettendo in contratto la clausola che, comunque, lui avrebbe fatto la figura del migliore del bigoncio. Quale occasione più propizia per chiudere giochi più cospicui che la data delle elezioni o la modifica dell’articolo 138 della Costituzione, del buonismo di Prodi, delle molotov di D’Alema o delle amletiche incertezze di Fini?
Qualche lettore si chiederà qual è poi la posta in gioco in questo grande riassetto del potere bancario, in assenza, o quasi, di quello politico; per dirla genericamente e banalmente è il potere stesso in Italia. Più in concreto è. Forse, il business delle privatizzazioni: un affare, diciamo, da alcune decine di migliaia di miliardi, nel quale si giocherà il nuovo corso del sistema bancario. E – badate – non parliamo della privatizzazione delle banche, che di fatto sono ancora in mens Dei, ma proprio di quelle delle imprese di Stato, tipo la Stet, nell’eterno incesto banca-impresa. Ci avranno magari pensato Capaldo e Geronzi, conducendo per mano Berlusconi nella complessa partita di mediaste? Chissà.
Se volete, comunque, è proprio qui che nasce non il paradosso, ma la mostruosità: se l’affare bancario è nelle privatizzazioni di aziende pubbliche, non è, comunque, in quello delle banche stesse, che continuano a essere pubbliche attraverso l’escamotage delle Fondazioni.
«Dio mi perdoni!», ha detto più di una volta Giuliano Amato, ex presidente dell’Autorità Antitrust, per aver inventato, con una sua legge, al Fondazione bancaria, un organismo che tende a perpetuarsi per salvare se stesso e che rischia di fare delle Fondazioni il vero padrone d’Italia, esentato da qualsivoglia controllo. Capite il paradosso? Le banche si attrezzano per lucrare sulle privatizzazioni, ma fanno di tutto per non privatizzare loro stesse.
Hai voglia a cercare distinzioni tra banca laica e banca cattolica, tra riferimenti ideologici o di partito, qui detta legge ormai un nuovo sistema che nello schematismo anglosassone, l’Economist crede di dover definire «bizantino». E, associandoci, infileremo anche noi magari una bestialità, chiedendo (ma a chi?) se è normale, in un sistema politico che tende al bipolarismo, il moltiplicarsi dei poteri finanziari e, soprattutto, se è normale che non rispondano a nessuno.
Ecco perché, se volete sapere cosa capiterà in Italia nel prossimo anno o nel prossimo lustro, per favore, non chiedetelo a D’Alema o a Fini, ma chiedetelo, semmai, a Geronzi, Bazoli e Zandano – visto che Cuccia non parla con nessuno -, i quali magari, superpotenti commis di una proprietà che non si sa bene a chi appartenga, potranno darvi, se vogliono, qualche dritta in più.
Perché sta capitando che, mentre la politica si consuma allegramente, anzi tristemente, intorno alle date elettorali (fra tre mesi o fra sei mesi?), dietro i tavoli delle regole, nei meticci ambulacri giudiziari, nelle comiche contrapposizioni massmediali, il capitalismo italiano si ristruttura alla grande, zitto zitto, silenzioso e sotterraneo come una talpa, quando può senza fare i conti con nessuno, né il Parlamento, né tantomeno, i partiti, forse apparecchiando sul serio quei Poteri Forti che Pinuccio Tatarella, anima buona del postfascismo, vedeva erroneamente esplicitati in una specie di gita aziendale in Mediterraneo a bordo del panfilo «Britannia» cui partecipava, inconsapevole, un modesto middle management statale e finanziario, per discutere delle privatizzazioni di aziende pubbliche.
Prendete, per capire, «Il Corriere della Sera» di ieri,a pagina 12: in carattere da clausola assicurativa, troverete un annuncio a pagamento asettico e incomprensibile ai più ma che, se accuratamente compulsato, rivelerà, in parole povere, che l’Istituto Bancario San Paolo di Torino uscirà dall’azionariato dell’Ambroveneto, il quale a sua volta con Crt e Cassa di Verona darà luogo a un Polo bancario di ispirazione cattolica, riunendo tutto quel mondo, insomma, che a Brescia come a Milano, vede in Giovanni Bazoli un leader non soltanto finanziario, ma anche – come dire? – etico. Insomma, una Galassia, come si dice oggi nel ridondante lessico bancario.
Gianni Zandano, capo del San Paolo, antico sodale di De Mita e della sinistra democristiana, lascia, a sua volta, l’Ambrosiano, a quanto pare d’accordo con il presidente del Consiglio Dini e col governatore della Banca d’Italia Fazio per concentrare le sue risorse disponibili nell’intesa con l’Imi, la Cariplo, il Monte dei Paschi di Siena e il gruppo assicurativo dell’Ina, grande ex feudo andreottiano, oggi nelle mani di Sergio Siglienti, un laico imparentato coi Berlinguer, che però, ha adesso qualche motivo di risentimento nei confronti di Enrico Cuccia.
Complicato? Può darsi. Ma ancora più difficile è capire a che scopo tutto ciò avvenga. L’Imi – se vogliamo riassumere all’osso – dispone di 5000 miliardi di free capital, che tradotto in italiano, vuol dire mezzi liquidi da impegnare, magari, in privatizzazioni di aziende pubbliche, con tutto ciò che questo comporta in termini di futuro potere, se non di utili.
Siamo così – se vogliamo tenere il conto – già a due Galassie finanziarie orientate al profitto, una che fa capo a Bazoli, cattolico pio e osservante, l’altra che si muove introno a Zandano, ex esponente della dc consociativa e «di sinistra», come direbbe Lucio Dalla, che peraltro, l’associava a una «puttana». Ma attenzione, queste classificazioni, queste etichette tradizionali, non sono più cogenti come un tempo – cattolici di destra, cattolici di sinistra – perché, nel vuoto della politica che annaspa alla ricerca di una data per votare e di una qualsiasi legittimazione sensata, non è più questo che fa status, almeno per nessuno che badi alla concretezza degli affari.
Del resto, non è cattolica, sulla carta, anche la galassia che fa capo a Pellegrino Capaldo, grande curatore di interessi terreni del Vaticano, e Cesare Geronzi, più terrenamente assai vicino al presidente del Consiglio in carica Lamberto Dini? Per la verità, è proprio la Galassia del Centro Italia a porsi, in questo momento, come la più attiva e spregiudicata. Avrebbero mai potuto Zandano o Bazoli montare un’operazione come quella che ha tolto dai guai aziendali l’ex e forse prossimo presidente del Consiglio? Forse sì, ma nessuno come Capaldo e Geronzi ha capito che, in questo momento, banca e finanza non hanno più bisogno di precisi referenti politici, semplicemente perché, nel vuoto della politica, sono magnificamente autoreferenziali: basta un grande referente istituzionale, che, se per Capaldo è la gerarchia ecclesiastica, per Geronzi è il presidente del consiglio in persona. Pro tempore? Certo, ma chissà per quanto tempo.
Bisognerebbe chiedere a Fabio Tamburini, giornalista di «Repubblica» che ne ha scritto una monumentale biografia, come prende tutto questo Enrico Cuccia, antico capo carismatico di Mediobanca, l’unica Galassia con trade mark depositato, e, per stare alla pigrizia giornalistica, Gran Sacerdote della finanza laica. Si dice che i suoi rapporti con la coppia Capaldo-Geronzi siano squisiti. Che quelli con Bazoli siano civili. Che con Zandano, in fondo, si salvano le forme, pur con qualche freddezza. Ma che ci sarà di vero? Anche i più strenui sponsor di Mediobanca dicono sempre, come per contratto, «ben vengano altre grandi banche d’affari», ma Cuccia come vede e come giudica, in realtà, tanti e tanto disinibiti concorrenti, il proliferare di galassie più o meno attendibili? Per quanto potrà durare, poi, l’entente cordiale con Geronzi, che un po’ assatanato, mette le mani dappertutto?
Il vecchio ordine, insomma, s’è sfaldato, il controllo politico degli antichi partiti non c’è più, almeno nella forma asfissiante che il sistema bancario ha conosciuto per interi lustri, i nuovi protagonisti non sanno neanche, se vogliamo dirlo, da dove si comincia per controllare il potere bancario e finanziario: prova ne sia Berlusconi, che ad esso ha dovuto affidarsi per sistemare, provvisoriamente, le sue faccende aziendali, mettendo in contratto la clausola che, comunque, lui avrebbe fatto la figura del migliore del bigoncio. Quale occasione più propizia per chiudere giochi più cospicui che la data delle elezioni o la modifica dell’articolo 138 della Costituzione, del buonismo di Prodi, delle molotov di D’Alema o delle amletiche incertezze di Fini?
Qualche lettore si chiederà qual è poi la posta in gioco in questo grande riassetto del potere bancario, in assenza, o quasi, di quello politico; per dirla genericamente e banalmente è il potere stesso in Italia. Più in concreto è. Forse, il business delle privatizzazioni: un affare, diciamo, da alcune decine di migliaia di miliardi, nel quale si giocherà il nuovo corso del sistema bancario. E – badate – non parliamo della privatizzazione delle banche, che di fatto sono ancora in mens Dei, ma proprio di quelle delle imprese di Stato, tipo la Stet, nell’eterno incesto banca-impresa. Ci avranno magari pensato Capaldo e Geronzi, conducendo per mano Berlusconi nella complessa partita di mediaste? Chissà.
Se volete, comunque, è proprio qui che nasce non il paradosso, ma la mostruosità: se l’affare bancario è nelle privatizzazioni di aziende pubbliche, non è, comunque, in quello delle banche stesse, che continuano a essere pubbliche attraverso l’escamotage delle Fondazioni.
«Dio mi perdoni!», ha detto più di una volta Giuliano Amato, ex presidente dell’Autorità Antitrust, per aver inventato, con una sua legge, al Fondazione bancaria, un organismo che tende a perpetuarsi per salvare se stesso e che rischia di fare delle Fondazioni il vero padrone d’Italia, esentato da qualsivoglia controllo. Capite il paradosso? Le banche si attrezzano per lucrare sulle privatizzazioni, ma fanno di tutto per non privatizzare loro stesse.
Hai voglia a cercare distinzioni tra banca laica e banca cattolica, tra riferimenti ideologici o di partito, qui detta legge ormai un nuovo sistema che nello schematismo anglosassone, l’Economist crede di dover definire «bizantino». E, associandoci, infileremo anche noi magari una bestialità, chiedendo (ma a chi?) se è normale, in un sistema politico che tende al bipolarismo, il moltiplicarsi dei poteri finanziari e, soprattutto, se è normale che non rispondano a nessuno.
Ecco perché, se volete sapere cosa capiterà in Italia nel prossimo anno o nel prossimo lustro, per favore, non chiedetelo a D’Alema o a Fini, ma chiedetelo, semmai, a Geronzi, Bazoli e Zandano – visto che Cuccia non parla con nessuno -, i quali magari, superpotenti commis di una proprietà che non si sa bene a chi appartenga, potranno darvi, se vogliono, qualche dritta in più.