Operazione autosalvataggio
L'espresso
A questo punto, lo scoglio più insidioso sarà, paradossalmente, l'imminente assemblea dell'Ente Cassa di Risparmio di Roma, la fondazione di origine papalina che controlla la Banca di Roma
A questo punto, lo scoglio più insidioso sarà, paradossalmente, l'imminente assemblea dell'Ente Cassa di Risparmio di Roma, la fondazione di origine papalina che controlla la Banca di Roma e che, a gioco lungo, potrebbe essere la principale beneficiaria dell'operazione. Sotto la presidenza di Emmanuele Emanuele, principi neri e vecchi boiardi di Stato, politici di governo e d'opposizione, cervelli finanziari e professionisti paludati si riuniranno per dare via libera al massiccio aumento di capitale della banca con il quale Cesare Geronzi, direttore della fondazione e presidente dell'azienda di credito, corona la sua carriera. Si tratta di una doppia manovra: l'emissione di nuove azioni ordinarie della Banca di Roma per 3 mila miliardi e il lancio di obbligazioni Mediobanca convertibili nelle azioni Banca di Roma oggi di proprietà dell'Iri per altri 1.800-2.000 miliardi. Metà delle azioni saranno sottoscritte da Toro Assicurazioni, gruppo Fiat, dalla Bam (la Banca Agricola Mantovana) e dall'americana Eds, una società del miliardario Ross Perot che ha ottenuto il contratto per la riorganizzazione del gruppo bancario italiano. Il resto andrà a investitori istituzionali (tra cui la Banca Commerciale e il Credito Italiano) e al mercato. Le obbligazioni avranno una diffusione più frazionata anche se un socio stabile come la Bam pensa di prendersene un 2 per cento.
Non tutti, nell'assemblea della fondazione, saranno d'accordo, anche se in questo modo si offre alla fondazione la possibilità di vendere, se e quando vorrà, una partecipazione finora infruttifera e ottenere così i denari necessari ai suoi scopi statutari. Può darsi che qualche cultore della tradizione protesti perchè, con questa mossa, l'Ente Cassa diluisce la sua partecipazione e perde la maggioranza assoluta della Banca di Roma senza vedere il becco di un quattrino. Ma i consensi necessari non mancheranno. Geronzi già dispone del parere favorevole di alcuni dei soci più potenti della fondazione come Gianni Letta, plenipotenziario di Silvio Berlusconi, Antonio Maccanico, ministro delle Poste, e Francesco Paolo Mattioli, responsabile per la finanza della Fiat. Cesare Romiti aveva già dato via libera al management della Toro, ben felice di poter aggiungere (o contrapporre)all'alleanza degli Agnelli con il San Paolo di Torino un nuovo rapporto della Fiat, da lui presieduta, con un'altra grande banca.
Il piano di Geronzi è stato presentato come una privatizzazione. L'avallo concesso da Mediobanca ha forse indotto al silenzio i critici delle ''false privatizzazioni'', ma anche in questo caso i numeri indicano una privatizzazione a metà. Come mostra il grafico, la fondazione conserverà la maggioranza relativa della banca e, in assenza di ulteriori accordi, quella assoluta del sindacato di controllo. Di privatizzazione si potrà parlare se e quando il patto non venisse più rinnovato e la banca diventasse così scalabile, non avendo la fondazione la liquidità per contrastare aggressioni in Borsa. Per ora sembra più appropriato parlare di un brillante autosalvataggio. Del quale ''L'Espresso'' ha ricostruito i retroscena.
La rana di Esopo
Tutto comincia dodici mesi fa. Nel settembre del '96, il vertice della banca si rende conto che il bilancio continua a fare acqua e ancor più ne farà in futuro: l'avvicinarsi dell'Euro tenderà a chiudere quell'ampia forbice tra tassi attivi e passivi che fin qui ha consentito alle banche italiane di nascondere la loro storica inefficienza. Certo, per un'ultima volta si sarebbe potuto salvare la faccia vendendo un pò di titoli buoni e di azioni fortunate, come quelle di Pronto Italia, uno dei due consorzi che hanno dato vita a Omnitel. E in effetti così si è fatto riuscendo a dichiarare un utile netto consolidato di 121 miliardi benchè la gestione ordinaria fosse in rosso. Ma quando si hanno 22.500 miliardi immobilizzati in crediti in sofferenza, titoli di Stato da tenere fino alla scadenza per non accollarsi le relative minusvalenze, avviamenti sulle partecipazioni, e in immobili talvolta pletorici, c'è ben poco da mettere toppe al vestito: 22.500 miliardi sono più del doppio del patrimonio netto consolidato del gruppo, che è di 10.504 miliardi.
Nell'autunno del '96, dunque, la Banca di Roma si trova nelle condizioni della rana di Esopo: l'accorpamento nella piccola Cassa di Risparmio (dalla quale proviene Geronzi) delle due banche dell'Iri nella capitale, il Santo Spirito e il Banco di ROma, ha creato un colosso che rischia di scoppiare. Anche perchè, in seguito, il nuovo polo del credito aveva comprato la Banca Nazionale dell'Agricoltura e la Banca Mediterranea, due istituti malmessi la loro parte. Troppo personale, troppi affari arrischiati, troppo potere, ma anche troppa debolezza nello stato patrimoniale, nonostante l'Iri avesse accettato, regnante l'andreottiano Franco Nobile (socio anche lui della fondazione), di rimanere dentro la banca con una quota di minoranza onerosa quanto infruttifera.
La pulizia dei conti
Geronzi, uomo formato alla scuola della Banca d'Italia, pragmatico regista dell'espansione senza ristrutturazione quando la politica e l'economia lo consentivano, tenta ora una triplice scommessa: imporre il salasso degli organici fino ad allora rinviato, vendere qualche pezzo pregiato, attirare, infine, nuovi capitali offrendo in garanzia una ritirata della fondazione e la fuoriuscita dell'Iri. Sembra la quadratura del cerchio. Emanuele ci crede "Anche se l'assemblea della fondazione resta sovrana", precisa con ''L'Espresso''. L'Iri ci crederà. Soprattutto dopo che il governo ne ha cambiato il presidente,insediando il professor Gian Maria Gros Pietro con il mandato di liquidare l'istituto in tre anni avendo svalutato la partecipazione da 2300 a 1680 miliardi. L'Iri a questo punto rischia perfino di realizzare un qualche profitto cedendo le azioni a Mediobanca che le metterà al servizio delle obbligazioni. Il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, caldeggia l'autosalvataggio, purchè cominci con un'assunzione di responsabilità da parte del management sulla riduzione drastica dei costi.
La solidarietà è il pungolo che, a febbraio, convince Geronzi a rompere gli indugi e ad affidare al suo nuovo amministratore delegato, Carmine Lamanda, già capo di gabinetto di Lamberto Dini a palazzo Chigi e prima ancora alto dirigente della banca centrale, una serrata trattativa con i sindacati che si concluderà con il taglio concordato di 4 mila posti di lavoro entro il 2000. Ma alla svolta il banchiere era arrivato dopo aver ottenuto i viatici del caso. Uomo di lontane simpatie andreottiane, Geronzi aveva partecipato al convegno sulle banche che il Pds aveva tenuto a Siena il 29 novembre scorso. E prima di Natale, assieme ad altri colleghi, aveva ricevuto nei saloni della sede centrale di via Minghetti, a due passi da Montecitorio, i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Era la prima volta che incontrava Sergio Cofferati, Sergio D'Antoni e Pietro Larizza. Negli anni precedenti non ne aveva mai avuto bisogno.
Le dismissioni, seconda scommessa di Geronzi, sono state meno difficili: Interbanca e un nutrito gruzzolo di sportelli sono finiti alla Banca Antonveneta di Padova. Il guadagno fatto potrebbe servire a puntellare anche il conto economico del '97, ma se Geronzi vuole trovare nuovi soci non può fare il furbo. E lui,del resto, non vuole. E così parte una clamorosa operazione di pulizia sui conti che trova il suo primo sbocco ufficiale nella relazione semestrale, approvata giovedì 12 settembre, mentre il completamento è atteso per la fine dell'anno.
Per cominciare la Schroeder, banca d'affari inglese che da anni segue l'istituto romano, chiama la società di revisione Reconta (fondata da uomini di Mediobanca) a spulciare i crediti su base annua, se ne dovranno mandare a perdita per 1.900 miliardi. Per maggiore sicurezza, gli amministratori pensano di stanziare un fondo rischi tassato di 400-500 miliardi. Vi sono poi alcune partecipazioni (Compart, finmeccanica e altre) derivanti dalla ristrutturazione di crediti inesigibili: poiché sono in vendita vanno come minimo ricondotte ai valori di mercato. Che sono inferiori a quelli di carico. Senza contare che il risanamento della Mediterranea e di Bna richiederà ancora qualche ritocco, mentre il valore di libro della Banque Generale du Commerce, errore gravissimo in terra di Francia, va ulteriormente ridimensionato.
Cosa ci guadagna la Bam
Una somma di rettifiche, queste, che peserà per almeno 400 miliardi sul conto economico del ’97. Ma tutte queste pulizie aprono un ultimo, non trascurabile problema: che fare dei 1.120 miliardi di avviamenti pagati a suo tempo su partecipazioni che hanno regalato così scarse scarse soddisfazioni? La logica dice, azzeriamoli. Non foss’altro perché, tolto il dente, nei prossimi anni si potranno risparmiare gli ammortamenti. Lira più, lira meno, ballano 4 mila miliardi che assorbiranno per intero il risultato lordo stimato dagli analisti in 1.500 miliardi. Avere il coraggio di chiudere in rosso la semestrale e il bilancio del ’97 rappresenta la condizione per convincere Enrico Cuccia, novantenne presidente d’onore di Mediobanca, a firmare l’operazione sul capitale. Le perdite di oggi sono la premessa dei risparmi, e dunque degli utili di domani. Ma per i soci stabili privati, che rischiano in proprio, ci vuole dell’altro. E su questo fronte non tutto è chiaro. A parte i giochi di potere dei due Cesari (Romiti e Geronzi), la Toro potrà contare sul boom delle polizze vita agli sportelli della Banca di Roma.
Meno evidente, almeno per ora, appare il ritorno per la Ban. Geronzi parla di sinergie operative. I maligni ricordano che il direttore generale della popolare mantovana, Mario Petron, aveva prima guidato la sede milanese della Banca di Roma. Ma gli amministratori della Bam, agricoltori e industriali furbi, ricchi e concreti, non possono bloccare l’intera liquidità della loro banca solo per questo. Forse, il loro guadagno si capirà meglio quando sarà più chiaro il destino della Banca Nazionale dell’Agricolutra che, prima di diventare romana, aveva fato le sue fortune lungo le due rive del Po.
Molto patrimonio per nulla
E’ un’istituzione decisamente old fashioned per storia, cultura, stile di gestione. L’ente Cassa di Risparmio di Roma, presieduto dal professor Emmanuele Emanule, ex socialdemocratico, oggi convinto sostenitore di Forza Italia, è nato ai tempi del Papa Re: deriva infatti i suoi natali da un riscritto pontificio del 1836. Il fascino vecchio stampo si nota anche nello stile riservato con cui viene gestito l’elecno dei soci, tanto che i 167 membri della Fondazione, nominati per cooptazione, sembrano celebrità di un club alla moda, più che esponenti dell’organismo di controllo di una grande banca. Tra i soci c’è un nutrito drappello di principi, duchi, marchesi: da Camillo Borghese a Francesco Massimo Lancellotti, da Carlo Odescalchi a Marcantonio Pacelli, a Francesco Colonna a Benedetto del Gallo. Del club fanno parte anche il ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio e il ministro delle Poste Antonia Maccanico, l’ex presidente della Confindustria Luigi Abete e il dirigente della Fiat Francesco Paolo Mattioli; politici di Forza Italia come Gianni Letta e Antonio Marzano, e uomini dell’Ulivo come Leopoldo Elia o Sabino Cassese.
Ma è nella gestione economica che lo stile all’antica balza davvero agli occhi. Perché la fondazione assomiglia a quel rentier di fine secolo che dai loro sterminati latifondi finivano col ricavare poco o niente. Il bilancio al 30 Giugno 1996 dell’ente cassa di Risparmio di Roma mostra infatti che il patrimonio netto dell’Ente ha raggiunto la rispettabile cifra di 5 mila 208 miliardi. Ma i proventi e le rendite della Fondazione che oggi ha in portafoglio il 51 per cento della Banca di Roma sono solo 33 miliardi e 480 milioni; il suo avanzo di gestione è pari a 28 miliardi e 978 milioni. E una volta detratte le riserve varie, la cifra da destinare a opere di utilità sociale (volontariato, sanità, ricerca scientifica, cultura, assistenza e beneficenza) supera appena i 22 miliardi 268 milioni. Forse la scelta di privatizzare davvero un cespite che rende così poco è scritta nelle cose. Anzi, nei numeri.
Prometto, i privati conteranno
Che cosa cambia con il grande collocamento della zioni della Banca di Roma? L’Espresso lo ha chiesto al presidente Cesare Geronzi.
Si parla di privatizzazione, ma la fondazione ha la maggioranza relativa….
“A parte il fatto che la fondazione è un’associazione di diritto privato, vorrei ricordare che questa scende da una partecipazione del 51 per cento a una del 32, mentre l’Iri cede tutto il suo 36 per cento. Sono numeri che parlano da sé”.
Gli Agnelli, con il 30 per cento, comandano in Fiat. Non sarebbe più preciso, nel caso della Banca di Roma, parlare di privatizzazione a metà?
“Non sono d’accordo. Con i soci stabili si sta discutendo la costituzione di un sindacato. Conteranno. Ne abbiamo bisogno”.
La Compagnia di San Paolo ha sterilizzato buona parte dei suoi diritti di voto per cedere spazi decisionali ai privati. Accadrà altrettanto a Roma?
“Il patto è ancora in via di definizione. Ma posso dire fin d’ora che ci sarà equilibrio e accordo”.
Con la Toro nella Banca di Roma nasce l’asse Geronzi-Romiti. Che cosa vi siete detti?
“Nulla, perché con Romiti non ho parlato. Questa è un’alleanza prima di tutto industriale. La Toro era già il nostro partner assicurativo. La nostra rete di sportelli, pur essendo ancora coinvolta solo per metà, già vende 2 miliardi di polizze al giorno. Personalmente, ho trattato per quattro mesi con l’amministratore delegato Torri. Solo alla fine ne ho parlato con Mattioli, in quanto socio dell’Ente Cassa di Risparmio di Roma. Giunti alla fase della privatizzazione, al partner assicurativo la banca chiedeva anche un impegno nel capitale. La nostra rete ha fatto e fa ancora gola ad altee compagnie…”
Non si capisce, invece, che cosa Banca di Roma possa offrire alla Bam.
“Meglio investire in una grande banca che può garantire un ritorno dell’8 per cento sul capitale già nel ’99 e che può offrire una preziosa collaborazione, per esempio sull’estero, e nel credito all’agricoltura”.