In un libro-intervista le confessioni di Geronzi... Rivelazioni anche sui direttori del Corsera...
Affaritaliani.it
Dalla Banca d’Italia di Guido Carli al Banco di Napoli, dalla Cariroma a Capitalia, fino a Mediobanca e alle Generali, Geronzi è stato infatti un protagonista assoluto della finanza italiana
Il giornalista e il banchiere. Il risultato è "Confiteor - Potere, banche e affari. La storia mai raccontata", l'intervista di Massimo Mucchetti a Cesare Geronzi, in libreria per Feltrinelli: ricostruzioni incrociate, retroscena confidenziali, analisi a volte contrapposte sui personaggi, i conflitti, le congiure, i denari di trent’anni della nostra storia. Dalla Banca d’Italia di Guido Carli al Banco di Napoli, dalla Cariroma a Capitalia, fino a Mediobanca e alle Generali, Cesare Geronzi è stato un protagonista assoluto della finanza italiana. Hanno fatto discutere le sue relazioni con Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e Antonio Fazio, le grandi operazioni bancarie culminate con la fusione del polo romano in UniCredit suggerita da Mario Draghi. E ancor più ha suscitato reazioni la sua ascesa alla presidenza dei templi della finanza del Nord. Nel dialogo serrato con Mucchetti prende corpo la singolare “confessione” di un banchiere non pentito. Sono innumerevoli gli episodi mai raccontati che restituiscono la trama dei grandi affari: un continuo gioco di specchi che rimanda le mutevoli immagini dei vincitori. Indicato da Ciampi in Cariroma, Geronzi prese poi il potere sponsorizzando la Lazio come chiedeva il romanista Andreotti. Si sentì domandare da Enrico Cuccia, che nei suoi ultimi giorni voleva consolidare il suo delfino Maranghi in Mediobanca: “Vuol sempre bene a Vincenzino?”. Ottenne da Giovanni Agnelli un soave: “Ma caro Geronzi, se lei non vuole, non si fa” con cui liquidare l’assalto alla Banca di Roma portato dal San Paolo di Torino, che aveva proprio gli Agnelli fra i suoi azionisti. Provò a far guidare a Mediobanca la quotazione in Borsa di Mediaset, ma non ci riuscì perché Cuccia era scettico sui bilanci della tv ed esigeva rimedi radicali contro il conflitto di interessi di Berlusconi. Ma è stato con Giovanni Bazoli che negli ultimi dieci anni ha intrattenuto l’intesa di fondo, dalla scalata alle Generali nel 2003 alla nomina dei direttori del “Corriere della Sera”. Con questo libro per la prima volta chi sta fuori dal Palazzo può gettare lo sguardo oltre le porte chiuse del potere.
- in grassetto le domande di Mucchetti –
UN MONELLO IN VIA SOLFERINO
MUCCHETTI - Be’, con questa dichiarazione viene bene introdurre il terzo fronte del rapporto Capitalia-editoria, e cioè Rcs MediaGroup. Del resto, l’avevamo lasciato in sospeso alla fine del prologo.
GERONZI - Sì, dicevo che lei è tornato a scrivere come merita sul “Corriere” grazie a me e a Bazoli.
Si spieghi meglio. Anzi, racconti.
Siamo nel marzo del 2009. Il direttore Paolo Mieli riscuoteva sempre meno fiducia presso gli azionisti. Di certo non riscuoteva più la mia. Non si capiva dove volesse andare a parare…
Gli imputavate troppe riserve su un Berlusconi allora fortissimo?
Né io né la maggior parte dei soci avevamo un tale problema. La verità è che avevo cominciato a pormi delle domande su Mieli due anni prima, quando a Palazzo Chigi c’era ancora Prodi. Un giorno del 2007, m’imbattei nel direttore del “Corriere” a una colazione in casa di Tronchetti Provera, in via Bigli. Mieli aveva vicino Della Valle. Mi chiese se era vero quel che si diceva: che nutrivo riserve sulla sua direzione. “Hai buoni informatori,” gli confermai. “Dovresti pensare alle dimissioni.” Mieli era al secondo mandato. Vi era già stato un Mieli Uno, tra il 1992 e il ‘97, per decisione di Agnelli, Mediobanca benedicente…
Ebbe parte nella conclusione del Mieli Uno?
Zero. La Banca di Roma non aveva azioni Rcs. È logico pensare che quella decisione sia maturata nel quadro dei rapporti tra il direttore, l’Avvocato, Cesare Romiti e i banchieri Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi. Mieli era tornato sulla poltrona di via Solferino alla fi ne del 2004. Ed è del Mieli Due che ragioniamo chez Tronchetti. Spiego: “Il ‘Corriere’ può anche pubblicare un articolo di fondo in appoggio al centro-sinistra in avvio di campagna elettorale, come ha fatto nel 2006. Sarebbe stato più da ‘Corriere’ attendere l’esito della campagna prima di pronunciarsi, ma si può. Quello che diventa incomprensibile è scavare la fossa al governo due mesi dopo le elezioni”. Ma Mieli partiva dal fatto che la maggioranza uscita dalle urne era debolissima.
Ma allora c’è un problema con quell’endorsement di Mieli, fatto in quel modo e con quei tempi. Tra un endorsement e una condanna il giornale rischiava di diventare un agente politico. Insomma, mi sfuggiva il senso di quegli inviti alla Grande Coalizione e, al tempo stesso, di quella linea distruttiva sul Paese e sulle sue classi dirigenti. Dissi: “Il ‘Corriere’ come propositore e locomotiva del terzismo è frutto di una mutazione genetica!”. Paolo Mieli, per quanto professionalmente dotato, si è rivelato ai miei occhi una eclatante delusione.
Mieli fu l’unico giornalista che lei invitò alle nozze di sua figlia Benedetta…
Non l’unico. Venne pure Carlo Rossella. Fra gli altri ospiti, non giornalisti, ricordo Diego Della Valle e Luca Cordero di Montezemolo.
Altre delusioni?
Non Rossella.
Eppure, Mieli era molto attento alle posizioni di Geronzi.
Dice?
Dico. Nell’ottobre 2007, Mediobanca doveva definire le modifiche statutarie per definire in dettaglio la governance dualistica, adottata il primo luglio. Mieli non volle sostenere la versione che tendeva alla netta separazione della gestione dalla proprietà, per quanto questa potesse avere, come ebbe, l’imprimatur della Banca d’Italia.
In effetti, non ricordo interventi suoi o di altre firme del “Corriere” in questa materia nell’autunno del 2007. Ricordo invece benissimo un feroce quanto fragile articolo di fondo di Francesco Giavazzi qualche mese più tardi. Dopo aver detto peste e corna del regime dualistico, il professore sosteneva che si dovesse fare un’eccezione per Mediobanca, a causa dei suoi conflitti d’interesse.
Non sempre Francesco e io ci troviamo sulla stessa linea, ma in quel caso, alla sua maniera, lui coglieva le contraddizioni del sistema di cui lei era un gran pilastro. Apprezzo la sua lealtà di bandiera. Ma anche a lei, signor Mucchetti, non sfuggirà la data di pubblicazione: il 30 luglio 2008, nella previsione dell’assunzione di decisioni per il ritorno al sistema tradizionale. Chiesi lumi al direttore. Da Cortina il dottor Mieli mi rispose che sì, aveva detto a Giavazzi di essere un po’ incisivo, ma non di calcare tanto la mano.
Il direttore, nella sostanza, difende il suo editorialista. Dov’è il problema?
Il problema è nelle date. Al principio, e non richiesto, Mieli stende il velo del silenzio. Poi, una volta acquisita conferma della mia sfiducia verso di lui, riscopre la Banca d’Italia e arma un missile in prima pagina scegliendo con cura il momento in cui premere il bottone. Lo fa dopo che il Governatore, Mario Draghi, aveva appesantito le regole dell’autunno precedente così da ridurre il consiglio di sorveglianza a una specie di collegio sindacale. È evidente che il merito della questione non gli interessava in alcun modo. Se avesse avuto una sua linea in questa materia, avrebbe fatto scrivere Giavazzi, lei o qualche altro commentatore fin dall’inizio. E invece, appoggiandosi a Draghi in articulo mortis, Mieli pensa di ricavare un dividendo in termini di influenza sugli assetti della politica e dell’economia destabilizzando tutto senza avere un progetto vero. Ma il primo quotidiano italiano non vive di tatticismi, di continui zigzag. Non si rompe il vetro per poi proporre il servizio del vetraio amico, come faceva Charlie Chaplin nel Monello.
È sicuro di non aver mutato opinione perché, nel 2007, le basi reali della maggioranza azionaria che aveva sostenuto Mieli si andavano erodendo? Le fusioni Intesa-Sanpaolo e Uni-Credit-Capitalia, lo straordinario consolidamento di Sergio archionne in Fiat e il declino di Marco Tronchetti Provera in Teecom avevano cambiato gli assetti della finanza italiana.
Questo lo dice lei. In realtà, la fiducia nel direttore stava venendo meno leggendo il giornale. Basti pensare che Salvatore Ligresti cessò di partecipare alle riunioni del patto di sindacato e delegò la rappresentanza di Fondiaria-Sai a Massimo Pini, che aveva un passato di editore socialista, assai vicino a Bettino Craxi. Pini su Mieli nutriva storiche riserve e le manifestò ben presto anche in televisione, proprio da Lerner, L’Infedele. (...)
DAL TUNNEL SPUNTA DE BORTOLI
Il flashback è finito. Torniamo alla fine del Mieli Due. La scelta di de Bortoli quale successore alla direzione del “Corriere” fu, per così dire, preterintenzionale.
Non userei questo aggettivo. Il ritorno di de Bortoli in via Solferino – c’era stata un’altra sua direzione, un de Bortoli Uno, tra il 1997 e il 2003 – poté maturare perché, si disse, il sottoscritto affondò la candidatura di Carlo Rossella, strenuamente sponsorizzata, invece, da Diego Della Valle e da Montezemolo che, all’epoca, era presidente della Fiat e aveva mano libera sulle questioni editoriali. Ancorché, sotto sotto, Della Valle, Montezemolo e pure Passera volessero tenere ancora Mieli.
In realtà, secondo le cronache, Geronzi sosteneva la candidatura di Roberto Napoletano. Da direttore del “Messaggero”, Napoletano pubblicava gli scritti di Romano Prodi e dell’economista Marco Fortis, assai apprezzato dal ministro Giulio Tremonti.
E infatti il ministro Tremonti cercò ancora di appoggiarlo, con telefonate in extremis, quando ormai ci si stava orientando su de Bortoli. Ora, Napoletano è un valente professionista. Tanto è vero che ora dirige il “Sole 24 Ore”. Non nego che avesse il mio consenso, ma non aveva quello di altri soci…
Non quello di Bazoli, si disse.
Soprattutto gli mancava l’appoggio di quanti dicevano di sostenere Rossella. La candidatura di Rossella, rimasta sul tavolo fino al penultimo minuto, era stata presentata a Palazzo Chigi da Montezemolo e Della Valle.
Come lo sa?
Emerse in un colloquio che ebbi con Silvio Berlusconi, che di Rossella è un grande estimatore. Al premier spiegai che non si poteva imporre alla direzione del “Corriere” un manager di Mediaset. Sarebbe stata una forzatura dannosa per il giornale e pure per lui, Berlusconi. Non sarebbe passato.
Ma come sfumò la candidatura di Rossella?
Montezemolo mi chiese di accompagnarlo da Bazoli, a Ca’ de Sass. Era sicuro di poter fugare le sue perplessità. Accettai, ancorché, di regola, Nanni e io ci vedessimo da soli. Lo lasciai esporre le virtù di Rossella, le sue direzioni della “Stampa”, di “Panorama”, del Tg5 e del Tg1. Non aggiunsi verbo. Parlava da solo il fatto che, al momento, Rossella fosse presidente di Medusa, la società di produzioni cinematografi che di Mediaset. Bazoli espose con fermezza le sue riserve…
Quella volta, se la maggioranza avesse sostenuto certe candidature troppo targate politicamente, Bazoli si sarebbe ritirato dal sindacato Rcs, dov’era rappresentato dalla finanziaria Mittel e da Intesa Sanpaolo. Poi avrebbe pubblicamente spiegato il perché. In quei giorni ci fu anche questo avvertimento. Io lasciai che Montezemolo andasse a schiantarsi contro il no del professore. A un certo punto il colloquio si interruppe. Qualcuno bussava alla porta. Era Corrado Passera, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo. Fu invitato a entrare, un breve riassunto, e Passera suggerì: “Ma non sarebbe il caso di lasciare le cose come stanno?”. Ma non era più possibile. Nanni e io avevamo convenuto che il Mieli Due aveva fatto il suo tempo. Compresi che Nanni aveva un problema in casa. Ma all’ultimo minuto riemerse di nuovo Mieli. La sera prima della riunione del patto di Rcs mi chiamò Gianni Letta. Aveva appena incontrato Montezemolo al circolo Aniene, luogo d’elezione del generone romano. “Luca ci dice che forse è meglio tenersi Mieli. Guarda che ti chiamerà Silvio tra poco.” E infatti, di lì a poco, Berlusconi mi invitò a rinviare tutto di cinque o sei mesi. In questi casi, bisogna essere chiari e fui chiaro: “Silvio, ormai è deciso. La Rcs è una società per azioni, i soci del patto sono già convocati, sanno, de Bortoli ha già dato la sua disponibilità, non si può più tornare indietro”. Berlusconi capì. In effetti, de Bortoli era già stato preavvertito da una telefonata di Bazoli la domenica mattina e il lunedì era venuto da me in Mediobanca per l’investitura ufficiosa, entrando e uscendo dal tunnel segreto che collega la sede della banca al Teatro dei Filodrammatici in modo da evitare i giornalisti che assediavano l’ingresso da piazzetta Cuccia.
Come venne fuori il nome di de Bortoli?
Nei colloqui a quattr’occhi tra Bazoli e me. E però fui io a proporlo aprendo la riunione ufficiale del patto di sindacato Rcs. Subito dopo prese la parola Bazoli, a sostegno. Passera si spese per Mieli. Ma il cambio della guardia era nell’aria. Specialmente dopo l’intervento di Montezemolo. Il presidente della Fiat nella sostanza condivideva la linea di Passera. “Non avverto alcun bisogno di cambiamento,” proclamò, lanciandosi poi in un lungo pistolotto sull’autonomia del “Corriere” e sullo stile di Giovanni Agnelli che mai sarebbe andato a pietire benedizioni politiche. Ma Massimo Pini lo gelò: “Allora non era l’Avvocato ma il suo fantasma quello che vedevo entrare nell’ufficio di Craxi a parlare di direttori…”.
Marco Tronchetti Provera, che di Mieli è amico personale, che cosa disse?
Non disse nulla. Il presidente del patto, Giampiero Pesenti, chiese se si dovesse procedere al voto. Fu una formalità: de Bortoli passò con il consenso di tutti.
Della Valle si astenne.
Credo che non fosse presente a quella riunione.
Massimo Mucchetti