Geronzi: una congiura l’addio alle Generali
Il Piccolo
Il libro-intervista dell’ex presidente del gruppo triestino: “Il Leone è come una mucca speciale dalle cento mammelle”
“Alle Generali non ho perso perché non ho neppure combattuto”: il grande mandarino del potere seduto sulle memorie di mezzo secolo di finanza italiana si confessa: “Mi chiami signor Geronzi”. Sulla scrivania una ricca collezione di stilografiche. Comincia così Confiteor, come la preghiera penitenziale, il libro-intervista che Cesare Geronzi ha concesso la giornalista del Corriere della Sera Massimo Muchchetti, da oggi in libreria. Il colloquio è avvenuto nella sontuosa sede della Fondazione Generali di Piazza Venezia, a tutt’oggi presieduta da Geronzi, a due passi dai Fori Imperiali: “Qui sotto, è una metafora dell’Italia”, dice ammirato il banchiere che dovrà trasferirsi poi in un altro palazzo, più periferico, in via XX Settembre. Il libro, edito da Feltrinelli, esce oggi nelle librerie ed è un catalogo di retroscena su mezzo secolo di potere italiano. E non ci si poteva aspettare altro scorrendo, pagina dopo pagina, le risposte di Geronzi che alla fine disegnano un quadro rinascimentale a tinte forti e temperate fra intrighi, lotte per il potere, clamorose uscite di scena. Mucchetti lo incalza, sottoponendo ogni risposta a una verifica dei fatti immediata, e cercando di arrivare alla verità storica dei fatti. Ma alla fine delle 368 pagine, come il diavolo che si annida sempre nei dettagli, si ha sempre l’impressione che in questo racconto gotico, che attraversa l’Italia della Prima e della Seconda Repubblica, ci sia ancora molto da scoprire. Come nel film Rashomon, dove la verità è negli occhi di chi guarda, osserva Mucchetti.
Il banchiere di sistema.
Nel suo decennale percorso da presidente dei consigli di Banca di Roma, Capitalia, Mediobanca e poi le Generali. Geronzi non si pente mai: “Confiteor, ma anche et ego dimitto debitoribus”. Contesta la versione di chi lo descrive come “il banchiere della politica, in rapporti promiscui e opachi con il mondo degli affari” perché “la mia realtà è diversa da queste rappresentazioni”. Geronzi accetta “la prova di resistenza” entrando con Mucchetti nei Sancta Sanctorum della finanza che lo hanno visto protagonista spesso silenzioso e operante: la Banca d’Italia di Guido Carli, il Banco di Roma, Capitalia e poi Mediobanca e il Leone di Trieste. Cuccia, Bazoli, Maranghi. Nel quadrilatero di Piazzetta Cuccia (che oggi considera un freno alle Generali che restano “scalabili”) si gioca nel tempo l’ascesa e la caduta del più andreottiano e cardinalizio dei banchieri. Quando racconta il suo arrivo alla presidenza del gruppo triestino, nell’aprile del 2010, Geronzi sembra celebrare la conquista di un trofeo. La compagnia triestina è l’unico crocevia finanziario che meriti attenzione e dedizione.
Promossi e bocciati.
Geronzi arriva a Trieste dopo una vita passata nei corridoi del potere. L’uomo che sussurrava ai cardinali ne descrive uno con i simboli massonici sulla scrivania. Fino a svelare l’episodio di un Berlusconi che gli propone Bruno Ermolli (uno dei consulenti del premier) per lap residenza di Mediobanca. Un episodio che avrebbe fatto rabbrividire il Cesare Merzagora che alle Generali eresse barricate contro l’invadenza della politica. Fra i promossi e bocciati del libro, si salvano alla grande Massimo D’Alema e l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. L’ex ministro Tremonti viene raccontato come il dioscuro che tramerà per allontanarlo da Trieste. Con Antonio Fazio i rapporti sono strettissimi ma si interrompono quando l’ex governatore stringe rapporti con il Fiorani di Lodi. Ogni svelamento di Geronzi è un modo per ammonire o lusingare. Come quando racconta di non avere mai partecipato alla messa annuale in memoria di Raffaele Mattioli (il grande campo della Comit) nell’Abbazia di Chiaravalle. In chiesa non mancavano mai Enrico Cuccia, che Geronzi definisce “fra i più grandi banchieri del Novecento”, e il suo delfino Vincenzo Maranghi. “Vuoi sempre bene a Vincenzino?”, chiese Cuccia a Geronzi. Si vedrà?
Piazzetta Cuccia e le Generali.
E proprio sulla rilettura delle vicende di Mediobanca e delle Generali si succedono le pagine più avvincenti del libro (ma si parla anche degli scandali Cirio e Parmalat), grazie all’instancabile lavoro ai fianchi di Mucchetti. Colpiscono i capitoli dedicati ai primi anni Duemila, i più turbolenti della finanza italiana: anni in cui si diceva che i presidenti delle Generali saltassero come in una porta girevole. La morte di Enrico Cuccia, il dominus di Mediobanca, è un fattore scatenante. Geronzi racconta di un Antoine Bernheim (infuriato per essere stato defenestrato dalla presidenza del Leone a fine anni Novanta) che fa pace con Cuccia. I francesi cominciarono così a comprare azioni Mediobanca. Bernheim costruisce le basi per la sua permanenza a Trieste che durerà dieci anni. Il già dominus di Capitalia descrive un Vincent Bollorè (attuale vicepresidente delle Generali e a capo della cordata francese in Mediobanca, ndr) che incontra per la prima volta nel 2003 grazie ai buoni uffici di Berlusconi: “Non lo avevo mai visto prima. Pensare a lui come un raider, a un banale predatore di Borsa, è davvero superficiale”. Le banche (l’Unicredit) cominciano a rastrellare pacchetti di Generali. Maranghi alla fine, sempre nella versione di Geronzi, pone le sue condizioni per andarsene: la conferma di Antoine Bernheim e di Giovanni Perissinotti alla guida della compagnia: la cessione dei pacchetti azionari acquisiti, la salvaguardia dell’indipendenza di Mediobanca. Geronzi racconta che i francesi erano preoccupati per la perdita di valore del proprio investimento in Mediobanca priva del suo gioiello Generali sotto attacco.
Trieste amara.
Nel 2010 il banchiere di sistema approderà alla presidenza delle Generali. La sua breve stagione (a 337 giorni dalla nomina) si concluderà il 6 aprile del 2011 con una buonuscita di 16,7 milioni di euro e la presidenza della Fondazione del Leone. Si racconta l’accoglienza di Geronzi a Trieste il primo maggio del 2010: “Tappeti rossi e grandi onori. Ho trovato serietà, capacità, diffuso spirito di corpo”. Si descrivono le Generali come “una mucca speciale dalle grandi mammelle dove tutti quanti credono di attaccarsi con convinzione”. Nonostante la vicinanza con il premier Berlusconi, perde la poltrona di presidente delle Generali il 6 aprile del 2011, a nemmeno un anno dall’investitura. Respinge le critiche sulla buonuscita regale da 16 milioni di euro: “Volgarità. Nulla di più di quanto previsto”. Nel libro Geronzi ricostruisce minuto dopo minuto la “congiura” che lo costringerà a uscire di scena: “In quella disgraziata vicenda ci furono un mandato e due mandanti. Il mandato è Diego Della Valle che ha scosso l’albero con la malagrazia e non gli hanno fatto nemmeno raccogliere la mela”, mentre i “mandanti principali sono due e si chiamano Alberto Nagel (ad Mediobanca, ndr) e Lorenzo Pelliccioli”. Il mancato arrivo di Caltagirone a una cena con Bollorè, alla vigilia del cda, suona come un campanello d’allarme: “Non pensavo potessero arrivare a tanto ma non fui sorpreso”. L’allora Ceo Group, Giovanni Perissinotto viene descritto come una “persona professionalmente valida e di esperienza”: “Credeva di fare parte dei mandanti principali” ma “ben presto isi sarebbe accorto di essersi fidato delle persone sbagliate”. Geronzi, incalzato dal giornalista, assolve invece Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit. Nel libro il pensiero geronziano parla di una Mediobanca che già nel Duemila meditativa propositi di cambiamenti di governance a Trieste (poi di fatto realizzati, secondo Geronzi, con l’addio di Perissinotto e la nomina di Mario Greco e Ceo unico). Mucchetti è riuscito a raccontare l’archetipo dell’uomo di potere.
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