L’amaro addio di Bernheim: «Non mi vogliono»
Il Piccolo
Quando si fa una cosa bene si viene castigati. Pronto un accordo con i libici ma un socio disse no
TRIESTE Un amarcord di quasi due ore. Un addio pieno di flashback sulla propria storia professionale e, dunque, anche sulla storia delle Generali. Episodi che, per il ruolo centrale che il gruppo ha sempre ricoperto, tracciano pure i contorni delle vicende chiave dell' ultimo decennio della finanza italiana. É stato così l'ultimo intervento di Antoine Bernheim all'assemblea delle compagnia assicurativa. Un addio amaro («Andate a intervistare le vedettes, i nuovi amministratori. Qui non mi vogliono. Quando si fa una cosa bene si viene castigati. Non bisogna intervistare i perdenti» dice ai cronisti all'uscita dell' assemblea che ha appena eletto il nuovo cda). Interrotto più volte dalla commozione e anche con qualche punta di acredine, in cui l'ex presidente del Leone ha denunciato, senza mai nominarla esplicitamente però, il ruolo troppo invasivo di Mediobanca, l'azionista di riferimento. Un leitmotiv, visto che è stato spesso stigmatizzato durante questi anni anche da più parti, secondo cui la merchant bank, a detta di Bernheim, ha stoppato, e non soltanto una volta, l'aumento di capitale. Passo necessario affinché il Leone potesse cogliere occasioni di crescita all'estero.
L’OMBRA. E così l'ombra ingombrante di Piazzetta Cuccia è presente durante la genesi della sua prima cacciata dalla presidenza della compagnia (nel '99), originata dall'assunzione dell'ex direttore generale di Via Filodrammatici Gerardo Bragiotti in Lazard. Cacciata in cui il successore di Enrico Cuccia, Vincenzo Maranghi, «che aveva un carattere difficile come tutte le eminenti personalità», pensava che il finanziere francese avesse «preso accordi per sfilare clienti a Mediobanca e portarli in Lazard». Eventualità che a Bernheim, invece, «non era mai passata per la testa». Maranghi è quello che «lo va a trovare in montagna con Cuccia per chiedergli scusa» dopo il suo allontanamento. Ma è anche quello che, dopo l'ingresso nel capitale di Mediobanca del suo pupillo Vincent Bollorè, «cominciò a pensare che qualcuno gli avrebbe potuto rimproverare di averla venduta ai francesi». Insomma, «uno spirito piuttosto complicato».
I MANAGER. Poi, il suo ritorno in Generali nel 2001, quando mette il turbo all'espansione del gruppo. Facendo anche crescere, sotto la sua guida protettiva, gli attuali manager operativi. «Perissinotto era considerato da Gutty (ex presidente, ndr) il suo assistente. Io l'ho fatto uscire da questa anticamera ed è diventato amministratore delegato». Per Bernheim «la giovane età di Perissinotto era all'epoca un problema, perché gli avanzamenti di carriera erano in base all'età». Mentre Balbinot, a cui il finanziere riconosce il merito dell'espansione in Cina, «è una persona splendida», che «parla molte lingue (sospetto che stia imparando anche il cinese) e che ha il solo difetto di pensare che il mondo sia buono e generoso come lui».
FAZIO. Poi, a braccio, altri inediti. Come i ”pessimi rapporti” con l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio che organizzò una cordata di banche italiane nel 2002 «per fare in modo che Maranghi venisse definitivamente allontanato e io non rientrassi alla guida delle Generali». «Fazio aveva dato l'avvio all'operazione su Unipol che non condividevo. Comunque non amava me e nemmeno Maranghi. Quindi, aveva deciso di organizzare una cordata bancaria per aggredire le Generali». Operazione a cui non si prestarono due banchieri, che Bernheim ha ringraziato. Ovvero «l'allora presidente del Sanpaolo Rainer Masera e Cesare Geronzi, che cercò di calmare il gioco». Anche se il nuovo presidente della compagnia, all'epoca in Capitalia, «pensava che non ce l'avremmo fatta e che, quindi, la cordata avrebbe potuto mandarci a casa». Lì la risposta di Generali con il business plan triennale: «Noi non solo abbiamo raggiunto gli obiettivi, li abbiamo superati. Il cielo era con noi quel giorno».
LIBICI. Un'altra rivelazione dei movimenti carsici della finanza tricolore riguarda il mancato ingresso dei libici nel capitale delle Generali. «Prima della crisi con il mio amico Tarak Ben Ammar avremmo potuto far entrare un socio libico attraverso un aumento di capitale riservato. Il titolo valeva 20 euro, ci accordammo per 25, ma un azionista, di cui non faccio il nome, disse che si poteva fare a non meno di 29 euro. Quindi, il capitale libico non è arrivato». Occasioni perse, per le quali, l'ex presidente non nasconde il suo rammarico: «Avevo alcuni progetti in testa per Asia e Brasile. Le Generali devono continuare ad immaginare operazioni», poiché una compagnia ferma non ha un grande avvenire. «Non molto tempo fa – aggiunge - i dirigenti di Jp Morgan mi hanno fatto visita, spiegandomi che per il finanziamento dell'acquisizione di Aig Asia da parte di Prudential hanno raccolto 30 mld senza grossi problemi».
SFIDA. Sul finire del discorso, Bernheim mostra perplessità per la nuova struttura di governante («Perissinotto sarà Ceo e Balbinot responsabile dell'assicurazione. Non so quale sia il lavoro del ceo che non si occupa dell'assicurazione») e, con in tasca la presidenza onoraria («Non so cosa significhi, ma se me la propongono, l'accetterò per mantenere un legame con la compagnia»), lancia anche una sfida a Cesare Geronzi: «Il mio lavoro è stato difficile, a tempo pieno, con tanti viaggi. Spero che il mio successore abbia la voglia e la capacità di fare altrettanto. Gli auguro il successo». Il futuro di Bernheim, forse, si chiama Banca Leonardo, dall' amico Bragiotti. Perché la «mia età – ripete - è stata solo un pretesto. Sembra che oggi, a 85 anni, sia un vecchio rimbambito. Eppure Cuccia ha guidato Mediobanca quando era più anziano di me». Come dargli torto.
Andrea Deugeni
L’OMBRA. E così l'ombra ingombrante di Piazzetta Cuccia è presente durante la genesi della sua prima cacciata dalla presidenza della compagnia (nel '99), originata dall'assunzione dell'ex direttore generale di Via Filodrammatici Gerardo Bragiotti in Lazard. Cacciata in cui il successore di Enrico Cuccia, Vincenzo Maranghi, «che aveva un carattere difficile come tutte le eminenti personalità», pensava che il finanziere francese avesse «preso accordi per sfilare clienti a Mediobanca e portarli in Lazard». Eventualità che a Bernheim, invece, «non era mai passata per la testa». Maranghi è quello che «lo va a trovare in montagna con Cuccia per chiedergli scusa» dopo il suo allontanamento. Ma è anche quello che, dopo l'ingresso nel capitale di Mediobanca del suo pupillo Vincent Bollorè, «cominciò a pensare che qualcuno gli avrebbe potuto rimproverare di averla venduta ai francesi». Insomma, «uno spirito piuttosto complicato».
I MANAGER. Poi, il suo ritorno in Generali nel 2001, quando mette il turbo all'espansione del gruppo. Facendo anche crescere, sotto la sua guida protettiva, gli attuali manager operativi. «Perissinotto era considerato da Gutty (ex presidente, ndr) il suo assistente. Io l'ho fatto uscire da questa anticamera ed è diventato amministratore delegato». Per Bernheim «la giovane età di Perissinotto era all'epoca un problema, perché gli avanzamenti di carriera erano in base all'età». Mentre Balbinot, a cui il finanziere riconosce il merito dell'espansione in Cina, «è una persona splendida», che «parla molte lingue (sospetto che stia imparando anche il cinese) e che ha il solo difetto di pensare che il mondo sia buono e generoso come lui».
FAZIO. Poi, a braccio, altri inediti. Come i ”pessimi rapporti” con l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio che organizzò una cordata di banche italiane nel 2002 «per fare in modo che Maranghi venisse definitivamente allontanato e io non rientrassi alla guida delle Generali». «Fazio aveva dato l'avvio all'operazione su Unipol che non condividevo. Comunque non amava me e nemmeno Maranghi. Quindi, aveva deciso di organizzare una cordata bancaria per aggredire le Generali». Operazione a cui non si prestarono due banchieri, che Bernheim ha ringraziato. Ovvero «l'allora presidente del Sanpaolo Rainer Masera e Cesare Geronzi, che cercò di calmare il gioco». Anche se il nuovo presidente della compagnia, all'epoca in Capitalia, «pensava che non ce l'avremmo fatta e che, quindi, la cordata avrebbe potuto mandarci a casa». Lì la risposta di Generali con il business plan triennale: «Noi non solo abbiamo raggiunto gli obiettivi, li abbiamo superati. Il cielo era con noi quel giorno».
LIBICI. Un'altra rivelazione dei movimenti carsici della finanza tricolore riguarda il mancato ingresso dei libici nel capitale delle Generali. «Prima della crisi con il mio amico Tarak Ben Ammar avremmo potuto far entrare un socio libico attraverso un aumento di capitale riservato. Il titolo valeva 20 euro, ci accordammo per 25, ma un azionista, di cui non faccio il nome, disse che si poteva fare a non meno di 29 euro. Quindi, il capitale libico non è arrivato». Occasioni perse, per le quali, l'ex presidente non nasconde il suo rammarico: «Avevo alcuni progetti in testa per Asia e Brasile. Le Generali devono continuare ad immaginare operazioni», poiché una compagnia ferma non ha un grande avvenire. «Non molto tempo fa – aggiunge - i dirigenti di Jp Morgan mi hanno fatto visita, spiegandomi che per il finanziamento dell'acquisizione di Aig Asia da parte di Prudential hanno raccolto 30 mld senza grossi problemi».
SFIDA. Sul finire del discorso, Bernheim mostra perplessità per la nuova struttura di governante («Perissinotto sarà Ceo e Balbinot responsabile dell'assicurazione. Non so quale sia il lavoro del ceo che non si occupa dell'assicurazione») e, con in tasca la presidenza onoraria («Non so cosa significhi, ma se me la propongono, l'accetterò per mantenere un legame con la compagnia»), lancia anche una sfida a Cesare Geronzi: «Il mio lavoro è stato difficile, a tempo pieno, con tanti viaggi. Spero che il mio successore abbia la voglia e la capacità di fare altrettanto. Gli auguro il successo». Il futuro di Bernheim, forse, si chiama Banca Leonardo, dall' amico Bragiotti. Perché la «mia età – ripete - è stata solo un pretesto. Sembra che oggi, a 85 anni, sia un vecchio rimbambito. Eppure Cuccia ha guidato Mediobanca quando era più anziano di me». Come dargli torto.
Andrea Deugeni