Io e Bazoli duellanti? Ma per favore

Milano Finanza

Il presidente di Mediobanca si dice contrario alla politica delle stock option nelle banche e nell'industria. Il banchiere non condivide il pessimismo di Guido Rossi sulla crisi finanziaria. Ritiene che su Telecom siano stati fatti molti errori, ma dichiara stima a Tronchetti e condanna il blitz del governo Prodi.

A Enrico Cuccia la sola proposta di un'intervista pubblica avrebbe suscitato un'appena percettibile smorfia d'indifferenza, ma nell'era di CheBanca! non c'è da sorprendersi se il suo successore siede davanti a una folta platea per rispondere alle domande di un giornalista che lo interroga a tutto campo. In verità, Cesare Geronzi, presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca, uomo per solito parco di dichiarazioni pubbliche, qualche mese fa si era già aperto con il Sole 24 ore, ma un conto sono le dichiarazioni rilasciate in una sede privata e poi raccolte in un articolo, altro conto è parlare davanti a un folto pubblico di studenti e imprenditori come è accaduto mercoledì sera a Firenze in occasione dell'annuale convegno organizzato dall'Osservatorio Giovani Editori fondato da Enrico Ceccherini. Intervistato dal direttore de La Stampa Giulio Anselmi, il banchiere ha parlato per quasi un'ora e mezza senza mai farsi scudo della diplomazia. Anche quando si è trattato di affrontare le questioni più delicate e personali. Dal giudizio sulla politica perseguita da Mario Draghi al caso Telecom, dalla vicenda Alitalia ai suoi rapporti personali con Giovanni Bazoli, il presidente di Mediobanca ha spaziato senza sosta, non lesinando complimenti né giudizi taglienti.
E anche quando non ha fatto nomi, il messaggio è stato compreso da tutti. Prudente sulle Considerazioni Finali del governatore, non gli è però piaciuto l'allarmismo di Guido Rossi che lo stesso giorno della relazione di Draghi lanciava l'allarme per una nuova crisi finanziaria da 45 miliardi di dollari in arrivo. La crisi del credito? In fondo ha fatto bene a tutti, oggi si è più consapevoli di che cosa voglia dire giocare con i derivati e con la finanza strutturata. E la crisi dei mercati finanziari? È chiaro che i problemi non sono finiti, dice Geronzi, visto che le ripercussioni proseguiranno per tutto l'anno. Inoltre, molti canali di finanziamento si sono prosciugati e uno, quello delle cartolarizzazioni, si è chiuso del tutto. Ma il peggio, ha ribadito più volte, dovrebbe essere alle spalle. Quanto alle banche italiane, la difesa di Geronzi è senza riserve. Anzitutto perché il sistema nazionale del credito ha tenuto meglio degli altri; in secondo luogo perché l'economia del Paese può oggi contare su un pilastro che non è mai stato così solido.
Però, quando si cala all'interno delle dinamiche manageriali Geronzi non è più tanto compiacente. Per esempio, quanto alle stock option, si dice contrario alla logica della creazione del valore a tutti i costi come unica religione per condurre un'impresa finanziaria o industriale che sia. «Ciò è sbagliato», sostiene, «l'abbiamo importato dagli Stati Uniti senza valutare il contesto, come tanti provinciali. Sicché oggi si crede che il manager più è pagato e più vale, ma così non è». Poi arriva il turno dei grandi stipendi, e il pensiero malizioso vola subito alla liquidazione milionaria di Matteo Arpe, dimissionario da Capitalia. Invece Geronzi parla solo di se stesso: «Mi ritengo esente dalle polemiche di questi mesi, la cifra che a me è stata corrisposta (4 milioni di stipendio e 20 milioni quale premio per la fusione Capitalia-Unicredit, ndr) si riferisce alla liquidazione di 25 anni di lavoro, non appartengo e non sono mai appartenuto alla categoria dei patiti delle stock option, nell'operato ci deve essere indipendenza di giudizio e non di tornaconto personale. La mia remunerazione è la più bassa di tutti i miei colleghi, eccetto uno». Il nome? Non lo pronuncia.
Parlando di sé in rapporto alla politica aggiunge: «Non mi sento il grande Belzebù della finanza». E poi fa capire: non sono stato io a incrociare la politica, è stata la politica a incrociare me allorquando ha deciso di modificare leggi come la riforma delle casse di risparmio, di introdurre l'Amato-Ciampi o la riforma Andreatta». Ma, soprattutto, è stata la politica a incontrarlo allorquando, dal 1983, ha dato avvio a una lunga teoria di salvataggi e fusioni bancarie fino all'ultima, quella fra Capitalia e Unicredit, definita dallo stesso Geronzi «una straordinaria operazione». Su Telecom usa il fioretto, ma qualche segno resta. «La situazione del gruppo», dice, «è complessa. Ci sono state vicende anomale che sono sfuggite ma non hanno alcun riferimento con l'economia aziendale». La critica è tutta rivolta al governo Prodi, che ha determinato l'uscita di Marco Tronchetti Provera («lo apprezzo molto») forzando la mano con un piano industriale che era tutto di matrice pubblica. Quella mossa non gli piacque, e adesso lo fa sapere.
Sulle sue vicende giudiziarie non esita a esprimersi liberamente. «È incomprensibile che i magistrati non si rendano conto che il presidente di un banca come fu Capitalia era distante anni luce da concessioni di fidi per 2 miliardi di vecchie lire in un caso (crack Italcase, ndr) o di 13 milioni di euro nell'altro (vicenda Ciappazzi, ndr)». In ogni caso, Geronzi si sente tranquillo sull'esito finale dei processi pendenti: «Ognuno deve portare la sua croce, se questa è la croce che è stata destinata a me la tengo ben stretta perché sono ben altre le croci che fanno male». E i rapporti con il presidente di Intesa Sanpaolo? «Non è vero che siamo duellanti» dice Geronzi.  «Il mio rapporto con Bazoli dura da anni e, piaccia o no, ha determinato una qualche solidità al sistema». Poi però rivela «Effettivamente qualche incomprensione durante la fase di progettazione della fusione Unicredit-Capitalia c'è stata. Bazoli temeva lo strapotere di Unicredit su Mediobanca e sulla filiera delle partecipazioni, Generali e Rcs in primis, ma quando ha capito che i fatti sminuzzavano pezzo dopo pezzo le ansie di egemonia tutto è tornato normale». Di una cosa Geronzi si sente però colpevole: «Non credo che le banche ci marcino», dice, «ma certo noi dobbiamo assumerci la responsabilità di esserci distratti nel rapporto con il cliente. Non abbiamo saputo vedere come la conservazione della clientela fosse un bene assoluto per il sistema bancario». Dalla platea giunge un'ultima domanda, è sulla decisione del ministro Giulio Tremonti di tassare i petrolieri: «Concordo pienamente con la decisione del ministro di eliminare alcune discrasie. Probabilmente l'avrei fatto anch'io».