L'incoronazione di Cesare

Il Foglio

Geronzi alla scrivania di Cuccia in Mediobanca. Il banchiere più inclusivo d'Italia è stato considerato a lungo troppo romano per i gusti milanesi. Lunedì il nord lo accoglie, con qualche malinconia nella Brescia bazoliana

Milano - Lunedì l'assemblea plenaria del patto di sindacato di Mediobanca conferirà a Cesare Geronzi le insegne del potere mediobanchesco. Geronzi sarà presidente del consiglio di sorveglianza della banca d'affari, che con il nuovo sistema di governance può essere considerato la configurazione più vicina a quello che fu il massimo potere finanziario nell'Italia di un tempo: il posto di Enrico Cuccia.
La storia è abbastanza impressionante nella sua schematica progressione ed è nota e già scritta (anche da noi): CG - l'uomo che viene da un paese della provincia laziale - è cresciuto alla scuola della Banca d'Italia, poi ne è uscito, a metà degli anni Ottanta diventa direttore generale di una piccola banca, la Cassa di Risparmio di Roma, e piano piano costruisce la sua carriera di grande regista (geometrie precise e giocate semplici), e di equilibratore del sistema di potere bancario. Lo fa con il suo stile, romano appunto, fatto di consuetudini vaticane, di rapporti politici larghi, di benevolenze e di interventi di pronto soccorso finanziario richiesti dal sistema. La sua romanità, che dovrebbe essere un punto debole nella percezione del geronzismo visto da nord (dove risiede il potere finanziario), finisce con il diventare la sua caratteristica più interessante, quella che gli consente di insediarsi a Milano da vincitore. Mario Monti, al quale una volta sfuggì di attaccarlo da nord, appunto, in un editoriale sul Corriere della Sera oggi se lo ritrova come alleato naturale nella costruzione di un sistema di potere borghese incardinato sul quadrilatero Rcs-Unicredit Group-Mediobanca-Generali. E i suoi stessi avversari, o il mondo che ne rappresenta l'alternativa più plausibile, si ritrovano anche loro a osservare con una certa stupefatta e involontaria ammirazione la sua riuscita.
Curioso, per esempio, ma Tommaso Padoa-Schioppa, che dell'inafferrabile Geronzi è una delle tante possibili antitesi, lo ha citato nel passaggio sulla Banca d'Italia considerata incubatrice di classi dirigenti nella conversazione di due giorni fa con il Corriere della Sera (e Geronzi andò via da Palazzo Koch chiuso proprio da quella élite cui TPS appartiene). Quanto all'uomo che più classicamente ha interpretato il ruolo di suo competitore - anche nel senso semisportivo che la lotta per il potere contiene in sé - e cioè Giovanni Bazoli, comunque fosse andata a finire, bisogna dire che la sconfitta dell'uno sarebbe stata la misura della vittoria dell'altro. Bazoli e Geronzi hanno avuto vite molto parallele. Entrambi cattolici, ma molto diversi, entrambi nati alla finanza privata in una piccola banca, si sono sfidati a viso aperto per quello che consideravano l'unico premio possibile, la leadership nel sistema di potere economico e finanziario e l'influenza su alcuni simboli di quel potere, a partire dai due più significativi: il Corriere della Sera, ossessione dei leader politici con ambizioni di irredentismo psicologico rispetto alla forza del capitale (anche se da noi questa forza si indebolisce con gli anni), e le assicurazioni Generali, cioè un enorme contenitore di liquidità da gestire per quasi 400 miliardi di euro. Bazoli, oggi, è uno sconfitto molto onorevole. Il bazolismo (che alcuni osservatori giudicano un'invenzione giornalistica che va oltre il suo autore), una visione compassionevole ed espansiva, generalista, fatta di grandi obiettivi di sistema perseguiti dalla finanza in nome dell'interesse generale che la politica debole non riesce a conseguire, esce ridimensionato: da una parte dalla nascita di Unicredit Group e dalla vittoria del modello costituito da Alessandro Profumo come banchiere di mercato; dall'altra dalla geometrica inclusività di Cesare Geronzi.