Un polo per il mezzogiorno

14 marzo 1992 - Milano Finanza pubblica l’intervento tenuto da Cesare Geronzi nell’incontro “Un grande gruppo al servizio del mezzogiorno”.

L’esperienza storica, così come la teoria economica, sottolineano il ruolo di un grande rilievo che il settore creditizio può svolgere nel favorire l’accumulazione del capitale e lo sviluppo in paesi o aree di tarda industrializzazione. La capacità degli intermediari creditizi di porre in essere  rapporti stabili e duraturi con la clientela, accedendo anche a informazioni riservate, consente infatti di allargare l’orizzonte temporale degli investitori e di convogliare risorse verso utilizzi che nel lungo periodo possono incrementare le capacità di crescita dell’economia. Ciò non significa che la banca sia la leva, lo strumento sul quale fare affidamento per attivare dall’esterno il circolo virtuoso dello sviluppo in situazioni di relativa arretratezza economica. Essa costituisce piuttosto il soggetto imprenditoriale che in un’economia di mercato consente di allocare risorse scarse verso impieghi socialmente efficienti.

Gli elementi di debolezza

Per lungo tempo il sistema creditizio italiano ha svolto questa funzione con riferimento al mezzogiorno in modo prevalentemente derivato, in un modello che privilegia l’intervento pubblico e la programmazione e si serviva a tal fine di soggetti finanziari di natura straordinaria. Ciò ha esercitato un’influenza non secondaria sull’operatività e sulla stessa struttura del sistema creditizio: storicamente, l’offerta bancaria si è articolata in prevalenza attorno a banche operanti quasi esclusivamente nel meridione, determinando una struttura scarsamente esposta a stimoli concorrenziali e sostanzialmente chiusa rispetto al mondo esterno. A questo, oltre che alle difficili condizioni ambientali e produttive, possono essere ricondotti alcuni elementi di debolezza degli intermediari che hanno nel mezzogiorno l’area di operatività prevalente. Le contenute dimensioni aziendali, il più elevato grado di rischiosità degli impieghi, la maggiore incidenza dei costi operativi rispetto ai fondi intermediati, alcuni aspetti di fragilità del sistema finanziario sono indicativi di una struttura che riflette le difficoltà dell’economia, invece di contribuire al loro superamento. Le innovazioni normative degli ultimi anni, il procedere del processo di armonizzazione comunitaria e di integrazione internazionale del sistema finanziario italiano, la diffusione dell’innovazione finanziaria hanno già contribuito, e contribuiranno ancor più in futuro, a proporre la concorrenza come una forza pervasiva, che tende ad abbattere le segmentazioni tra mercati e a imporre una disciplina sempre più stringente ai comportamenti delle banche. La maggiore concorrenza che si viene diffondendo nel settore del credito, e che si concreta in un più ampio grado di apertura del sistema bancario meridionale, fa emergere con maggiore chiarezza la necessità di far prevalere nell’attività degli intermediari nell’economia del mezzogiorno obiettivi di efficienza strettamente  aderenti alle logiche di mercato. Se nell’economia reale restano significativi ritardi, che si possono cogliere dalla semplice osservazione dei differenziali esistenti tra i redditi pro capite e i tassi di disoccupazione nel sud e nel resto del paese, l’integrazione finanziaria è proceduta a un ritmo ben più rapido. E’ mia opinione che in un’area economica come quella meridionale, nella quale prevalgono condizioni di incertezza sulle prospettive delle aziende produttrici di beni e servizi, in gran parte di piccole dimensioni, ci sia bisogno di intermediari in grado di valutare in modo efficiente il merito creditizio prestando una consulenza complessiva alla clientela. La banca universale è probabilmente la struttura organizzativa più adeguata per questa tipologia di mercato, poiché consente un’opportuna diversificazione del rischio e un’assistenza complessiva alla clientela. Un sistema caratterizzato da un più ampio ruolo del mercato mobiliare e da intermediari altamente specializzati è probabilmente idoneo a soddisfare le esigenze di una clientela già sofisticata. L’adozione di un modello di gruppo strategico, fortemente integrato e presente con elevata professionalità nei vari comparti dell’attività di intermediazione, può consentire di sviluppare questa contrapposizione di scuola tra sistemi orientati agli intermediari e sistemi orientati ai mercati.

Una banca universale

Il gruppo che origina dall’integrazione tra Banco di Santo Spirito, Cassa di Risparmio di Roma e Banco di Roma già nel Lazio si propone come una struttura vicina al modello della banca universale, ma all’interno di un gruppo polifunzionale. La banca universale, che sarà la componente più forte del gruppo, si avvarrà di un forte radicamento territoriale e di una stretta rete di rapporti con la clientela locale; alle altre componenti del gruppo verrà affidata in via prevalente la presenza su mercati innovativi in continua trasformazione; la direzione unitaria della holding permetterà poi di garantire uno sviluppo adeguato di tutte le componenti del gruppo. La ragione della mia partecipazione a questo incontro risiede nella forte presenza del gruppo nella Campania, che rappresenta attualmente la seconda regione di insediamento.
Espandendo la nostra presenza nel mezzogiorno intendiamo avvalerci in primis della capacità di fornire un’assistenza finanziaria completa e durevole propria della banca universale, nella convinzione che il livello di efficienza che le economie di scala e di diversificazione consentono di raggiungere a un gruppo di dimensioni nazionale costituisca una risposta più convincente ai problemi dell’economia meridionale, rispetto alle soluzioni rappresentate da intermediari disegnati ad hoc, magari inquinando gli obiettivi imprenditoriali con finalità da banca di sviluppo. Da più parti si è invocata l’adozione di un modello di banca mista come via privilegiata per ottenere un rapporto nuovo tra finanza e industria, funzionale a un’accelerazione del processo di accumulazione del capitale. Si argomenta che una forte presenza delle banche nel capitale delle imprese industriali risolverebbe il problema dell’accesso al capitale di rischio per le imprese industriali, garantendo un legame tra proprietà e controllo più consono a una gestione che valorizzi gli obiettivi di lungo periodo; l’impresa industriale potrebbe così sottrarsi all’incertezza, e al conseguente short-termism, che dominano il mercato di borsa, e il banchiere rivestirebbe una posizione privilegiata e avrebbe un doppio interesse, in quanto creditore e in quanto azionista, a selezionare i progetti più redditizi nel lungo andare.
Si sostiene che una banca che affianchi progettualità in settori reali alle tradizionali finalità finanziarie potrebbe svolgere un ruolo di primo piano nello stimolare lo sviluppo del mezzogiorno.
Si afferma che tale modello sarebbe congeniale alla tradizione italiana, dal momento che la banca mista è stato un elemento centrale del decollo dell’economia del nostro paese, e solo per i problemi di stabilità da questa ingenerati la riorganizzazione del sistema negli anni 30 è avvenuta evitando accuratamente ogni forma di commistione tra banca e industria; ora, l’esistenza di un regime di separatezza a monte della banca, sancito dalle disposizioni sugli assetti proprietari delle banche, contenute nel titolo V della legge antitrust, e l’introduzione di una disciplina stringente sui grandi fidi su scala comunitaria costituirebbero un valido presidio ai problemi di stabilità posti dalla banca mista e consentirebbero di cogliere i vantaggi.
Non si può negare che in queste argomentazioni esistono molti elementi di interesse, e che la riflessione su questi temi debba essere opportunamente approfondita. La mia prima reazione tuttavia è di cauto scetticismo. La recente disciplina dei gruppi già non preclude la presenza di attività industriali nel gruppo finanziario, individuando un limite pari al 15% delle attività del gruppo; il recepimento delle seconda direttiva di coordinamento renderà ancora più esplicita la possibilità che gruppi bancari si impegnino in settori non finanziari con partecipazioni qualificate, anche di controllo, non superiori al 15% dei fondi propri, imponendo un limite complessivo a questo genere di interessenza pari al 60% del patrimonio dell’ente creditizio. Grandi opportunità dunque vengono schiudendosi per il sistema creditizio, ma grave sarebbe l’errore di sottovalutare i rischi insiti in una presenza consistente in attività non finanziarie.
Innanzitutto non si deve negare che se sinergie esistono tra la stretta relazione di assistenza finanziaria che un gruppo creditizio può offrire e l’influenza sull’attività di gestione che può essere esercitata in virtù di un rapporto di partecipazione, in momenti di difficoltà ciò può costituire un indebito inquinamento dell’attività di valutazione del merito di credito da parte della banca.
Il rischio è che il canale di trasmissione delle oscillazioni cicliche dall’industria alla finanza possa ampliarsi oltremodo; che i banchieri si vedano privati di quella flessibilità nell’indirizzare i fondi che esalta il loro ruolo allocativo; che si assista a un’attenuazione dell’indipendenza che deve presiedere lo svolgimento dell’attività creditizia.

Enfasi sulla neutralità

Per svolgere nell’industria un ruolo non secondario, e soprattutto non subordinato e non foriero di instabilità, è necessario accedere a professionalità elevatissime, che male si collocano in una struttura multi divisione. A questa grande professionalità deve associarsi un’estrema indipendenza, dall’industria come dalla politica. Perché le opportunità offerte dalle innovazioni normative si traducano in fattori di successo è necessario mantenere l’enfasi sulla neutralità allocativa, seguire obiettivi imprenditoriali, sfuggendo a logiche di programmazione dei flussi finanziari che ingenerano un’indebita commistione di ruoli; l’affidabilità del prenditore di fondi, sia esso pubblico o privato, deve rimanere il criterio guida dello svolgimento dell’attività creditizia. Di una vera imprenditorialità finanziaria ha bisogno il nostro paese, e in misura ancora maggiore il mezzogiorno.
Affinchè tutto questo sia possibile, per esercitare una presenza nuova nel tessuto produttivo italiano e in particolare meridionale, evitando a un tempo problemi di concentrazione del rischio e di immobilizzi incauti, è necessario anche poter fare affidamento su grandi risorse patrimoniali di cui forse oggi in Italia nessuno dispone. La crescita dimensionale, l’afflusso di nuovi capitali, uniti a una grande indipendenza e alla disponibilità di capitale umano qualificato, sono i fattori determinanti del successo di un grande polo bancario, che consentono a un tempo di esaltare gli effetti positivi sul benessere delle comunità da esso servite.
In questo senso, l’impegno nel mezzogiorno del nostro gruppo non deve considerarsi episodico, e potrà rivelarsi in futuro elemento di successo imprenditoriale e stimolo all’attività produttiva dell’area. La riuscita di questa strategia dipenderà anche dall’impegno a rimuovere quei fattori che determinano difficili condizioni ambientali per lo svolgimento dell’attività creditizia: ma questo non è compito che spetta a un banchiere.