Lectio Doctoralis di Cesare Geronzi

UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BARI - FACOLTA' DI ECONOMIA
Conferimento laurea ''honoris causa'' in Economia e Commercio

''Ristrutturazione del sistema bancario: scelte manageriali fra teoria economica, incertezza e complessità''.

Aula Magna - Palazzo Ateneo Bari, 26 aprile 2002

1. Introduzione
Il contributo di riflessioni che mi accingo ad esporre attinge, inevitabilmente, al mio bagaglio di esperienza, cumulato soprattutto alla guida di aziende bancarie, in un intervallo temporale non breve e in contesti ambientali fortemente dinamici.
Nella storia che io ho vissuto si è passati dalla banca pubblica alla banca privata; dalla banca privata alla banca quotata con obblighi in tema di corporate governance e di trasparenza per gli investitori; da un mercato domestico relativamente competitivo ad un mercato globale tipicamente concorrenziale; da una situazione di tendenziale stabilità delle dimensioni a situazioni di forte crescita esogena mediante concentrazioni e acquisizioni, con tutti i problemi di integrazione ed economicità che ne sono conseguiti.
Qualsiasi esperienza manageriale si fonda su caratteri comuni ad ogni tipo di coordinamento di impresa e su caratteri distintivi, propri della singola attività.
Sulla specificità dell'attività bancaria mi soffermerò tra breve. Vorrei far precedere alcune considerazioni più generali.
L'elevata dinamicità dell'ambiente di riferimento, l'incompletezza delle informazioni, i vincoli di tempo e l'interpretazione dei segnali deboli fanno sì che il manager debba far leva sulle proprie capacità di intuito, sull'attitudine a saper scegliere rapidamente dopo aver soppesato al meglio tutti gli elementi disponibili.
Il rischio è una componemte quasi genetica del processo decisionale e di quello bancario in particolare. Il chiaro riconoscimento dei limiti cognitivi che informano l'intero operare manageriale consente di collocare il comportamento e le responsabilità del dirigente in un contesto che viene chiamato di razionalità limitata.
Nel prendere decisioni strategiche il manager può ricorrere ai lumi della teoria, economica e aziendale. Questo è però un sostegno spesso assai malfermo.
Infine il manager, qualunque manager, si avvale di uomini. La sua vocazione non può che essere quella di riconoscere e valorizzare i talenti degli uomini che dirige.
Nel prosieguo di questa esposizione proverò a definire il particolare sistema di orientamento che il banchiere utilizza per effettuare le sue scelte manageriali.
In questa sorta di ''bussola'' si possono identificare i quattro punti cardinali con altrettanti riferimenti tipici:

  • il primo identifica la ''specialità'' dell'attività bancaria;
  • il secondo riconosce nell'autonomia il valore principe del management;
  • il terzo riporta al confronto fra teoria e prassi, che forse presenta per il banchiere qualche grado di conflittualità maggiore rispetto ad altre attività;
  • il quarto, rivolto all'organizzazione dell'impresa, identifica vincoli e potenzialità specifiche che risiedono negli ''uomini'' e nella ''tecnologia''.

Su questi aspetti vorrei soffermarmi nell'ordine, anticipando che le problematiche del confronto fra teoria e prassi verranno riferite a scelte strategiche concrete quali quelle relative alla diversificazione operativa, ai legami fra banca e territorio, nonchè alla concentrazione. Il tema dei legami fra banca e territorio legittimerà qualche considerazione in merito al ruolo del credito nel Mezzogiorno.

2. Specialità della banca

Il primo punto è, dunque, rappresentato dal fatto che l'impersa bancaria è diversa.
Dal momento in cui l'economia ha assunto una dimensione monetaria, il credito e l'attività finanziaria in generale sono stati percepiti come uno snodo assolutamente critico nel funzionamento di un sistema economico e come fattore di grande rilievo nella spiegazione dei meccanismi che innescano, agevolano o ritardano lo sviluppo.
La banca - come insegnano i manuali - è quella istituzione la cui attività più tipica consiste nel fare prestiti e ricevere depositi dal pubblico, una parte rilevante dei quali ha natura monetaria e circola sulla base di un rapporto strettamente fiduciario. Sono servizi necessari al funzionamento del sistema economico e con forti esternalità, qualcuno li include addirittura tra i "beni pubblici".
Questa attività, seppure non esaurisce una realtà che si è molto arricchita nel tempo (basti pensare alle operazioni di gestione del rischio, di varia allocazione di risorse finanziarie, di monitoraggio e di consulenza), già rivela la particolarità e specificità delle banche. 
La simultaneità delle attività di credito e di debito sono all'origine della particolare fragilità del sistema bancario, anche perchè la banca fronteggia passività che sono in varia misura a vista, con attività che sono prevalentemente illiquide.
Inoltre, l'inserimento delle banche nel circuito dei pagamenti le espone a rischi di contagio di instabilità, trasformando un rischio individuale in un rischio sistemico.
Quando vengono meno le condizioni di equilibrio per un singolo istituto (a fortiori, per il sistema nel suo complesso) si spezza il rapporto fiduciario che è alla base della circolazione della moneta, che a sua volta è condizione fondamentale per il corretto funzionamento dell'intero sistema economico.
Non solo. La banca ha collegamenti stretti con il territorio, con una varietà di istituzioni, pubbliche e private. Alla banca si richiede attenzione ad una combinazione di mercati e clienti che spesso hanno interessi conflittuali, se non contrapposti.
La banca deve muoversi con sensibilità e prudenza nei confronti di una comunità di riferimento su cui i contraccolpi potrebbero rivelarsi esiziali ove la banca mutasse repentinamente le sue strategie e el sue politiche allocative.
Questo complesso di circostanze ha nel tempo finito per innestare nel sistema sociale un insieme di aspettative, riferite all'impresa banca, più forti e riconoscibili di quelle che sempre si legano ad ogni forma rilevante di attività economica.
Non è estranea la formarsi di tali aspettative, comuni a molti paesi, una tradizione storica più o meno antica che vede la banca sorgere per impulso pubblico e solidaristico a tutela del piccolo risparmio, per sostenere l'imprenditoria locale o combattere la piaga dell'usura. 
All'origine della nostra storia bancaria contemporanea, questa particolare valorizzazione "sociale" si ritrova nel testo della legge bancaria del '36 che qualificava come "funzioni di pubblico interesse" le attività di raccolta del risparmio e di esercizio del credito. Resta fermo il rilievo che l'art. 47 della Costituzione stessa riconosce allo svolgimento dell'attività bancaria. 
Lungo questo crinale non sono mancati le ambiguità e i condizionamenti, talora particolarmente gravosi, sull'attività del banchiere. La qualificazione di funzioni di pubblico interesse unitamente ai penetranti poteri di indirizzo e di vigilanza riconosciuti alle autorità creditizie, hanno portato a discontinuità e contraddizioni nelle interpretazioni sulla natura dell'attività bancaria.
Queste, talvolta, hanno determinato distorsioni del quadro competitivo e nel processo di valutazione del merito di credito.
Lo controversie interpretative sono state definitivamente eliminate solo nel 1993 con il Testo unico bancario che ha riconosciuto la natura di impresa dell'attività bancaria, indipendentemente dalla proprietà, pubblica o privata.
Nonostante questa svolta fondamentale, sono ancora diffuse richieste di un "contributo sociale" che la banca dovrebbe fornire, al di là della rilevanza sociale della sua attività.
Voglio dire che nell'immagine che della banca il tessuto sociale continua ad avere, pur trasformata e aggiornata al diverso contesto storico ed economico, vi sono ancora antichi connotati di assistenza e di "pubblico servizio". Molte delle ricorrenti polemiche che si alimentano nell'opinione pubblica sulla presunta "insensibilità" dei banchieri - e che sotto il profilo della gestione dell'immagine e del marketing non possono assolutamente essere trascurate - nascono quasi sempre da un travisamento dei veri connotati della banca e da una chiara sottovalutazione della sua natura di impresa, sottoposta al vincolo di economicità.
Va osservato, tuttavia, che l'evoluzione culturale - che ha portato al declino dell'economia mista - insieme al modello della società per azioni, hanno consentito di porre su basi di diverso equilibrio il valore del servizio pubblico e quello dell'economicità della banca. Il successivo processo di privatizzazione ha ulteriormente consolidato tale nuovo equilibrio.
Oggi è possibile leggere con maggiore chiarezza il significato della specialità della banca. Essa parte dalle condizioni peculiari dell'intreccio fra moneta e credito, comprende in sè la rilevanza sociale dell'attività, tiene conto della fragilità finanziaria connaturata con l'operatività tipica e fa discendere da tutto questo l'esigenza di tutela della stabilità.
Questa esigenza ha richiesto sul piano sistemico, la previsione di un complesso di "regole" incisivo e coordinato, tale da configurare un vero e proprio "ordinamento". Sul piano dei comportamenti si è tradotta nel tradizionale connotato di prudenza ed equilibrio riferito alle azioni e alle scelte del banchiere. Un connotato esplicitamente richiamato nel Testo unico con il riferimento alla "sana e prudente gestione".
In conclusione, nel seguire questo primo orientamento della sua bussola, il banchiere deve operare con sensibilità sociale e prudenza, valorizzando una consolidata attitudine a misurare i rischi, pur rispondendo alle sollecitazioni competitive.
Egli deve essere capace di riferire e misurare ogni opportunità ai vincoli creati da un pervasivo sistema di regole.

3. L'autonomia del banchiere

Mi soffermerò ora sul secondo "punto cardinale".
Alla banca non potrebbe competere un ruolo cruciale nella allocazione di risorse di importanza strategica per la crescita di un'economia se le decisioni del banchiere non fossero assunte in condizioni di autonomia.
La individuazione nella banca di funzioni di rilevanza sociale - che del resto trova ampi riscontri nella storia della banca attraverso i secoli - poco o nulla ha a che vedere con la formazione in Italia delle grandi banche pubbliche.
Dopo la crisi degli anni '30 il modello della "banca pubblica" è andato consolidandosi nell'Europa continentale, essenzialmente come la forma di "governance" più opportuna per garantire un'allocazione del credito tutelata dalle interferenze della grandi imprese.
In quella fase, come noto, il caso italiano presentava specifiche condizioni di fragilità del tessuto economico, una rilevante concentrazione del capitale industriale e una modesta presenza di capitale finanziario; esperienze ancora brucianti di quella che era stata chiamata "mostruosa fratellanza siamese" fra banca e industria.
Cogliendo le testimonianze di Menichella, si può dire che per conservare al Paese un  meccanismo di allocazione delle risorse essenziale, lo Stato dovette "improvvisarsi" banchiere e ciò avvenne più per costrizione che per scelta, di fronte alla manifesta inferiorità della finanza privata.
Sul filo del nostro ragionamento, ciò che importa, in questo caso, non è la "rilevanza sociale" dell'attività, bensì l'affermazione del valore dell'"autonomia" della banca, tutelato in una certa fase attraverso la proprietà pubblica.
Tale valore implica che il credito debba erogarsi secondo parametri rigorosamente finanziari, senza interferenze imprenditoriali, settoriali o, più in generale, delle politiche.
L'autonomia, in sostanza, è il presidio principale dell'efficienza allocativa delle banche, che a sua volta contribuisce all'efficienza complessiva dell'economia.
L'autonomia è nel patrimonio genetico del sistema bancario italiano. Il principio di separatezza banca industria, che storicamente con la legge bancaria del1936 si era contrapposto alla principale causa di instabilità e inefficienza del sistema precedente, è rimasto fermo nell'ordinamento, pur nel vigoroso processo evolutivo che ha condotto al Testo Unico.
Ma l'autonomia, per il banchiere non è stata e non è solo autonomia dalle imprese non finanziarie. E' stata - in larga misura - anche indipendenza dalla politica economica, quando il paradigma dell'economia mista, la cultura dominante e il modello della banca pubblica non configuravano le condizioni migliori per un esercizio dell'autonomia.
Oggi, a mio giudizio, l'autonomia del banchiere deve configurarsi anche in dimensioni ulteriori. In una società per azioni quotata essa è finalizzata alla creazione di valore per gli azionisti.
Il manager non può però trascurare gli altri portatori di interessi coinvolti nell'azienda bancaria, i cosiddetti stakeholder: clienti, imprese, dipendenti,  istituzioni del territorio in cui opera, ognuno con i suoi bisogni, i suoi valori, i suoi sistemi di pressione.
Questo non solo perchè la specialità della banca in qualche modo legittima un coinvolgimento più intenso degli stakeholder, ma anche perchè quella stessa "specialità" comporta un legame più stretto fra le prospettive di lungo termine della banca e le attese di soddisfazione e sviluppo dell'intera area che include gli stakeholder.
Questa dimensione dell'autonomia comporta per il banchiere un esercizio di equilibrio fra legittimi interessi, tavolta anche contrapposti.
Sono del resto noti taluni episodi - peraltro lungi dall'essere esclusivi al mondo bancario - in cui l'equilibrio del management è stato compromesso da pressioni indebite, volte a far prevale, su quelli complessivi della banca, interessi particolari, anche celati nel gruppo degli stessi azionisti.
In sostanza, l'autonomia affida le scelte allocative alla piena responsabilità del banchiere, svincolando dalla più o meno legittime pressioni di questa o quella categoria di stakeholder e allentando, in qualche misura, le tensioni verso il perseguimento di obiettivi di breve termine, che sono spesso in contrasto con un'affermazione più stabile e durevole degli interessi aziendali.

4. Il confronto tra teoria e prassi

Il terzo punto "cardinale" - su cui vorrei soffermarmi - richiama la necessità di trarre orientamenti alle decisioni dalla integrazione fra teoria e prassi.
La teoria aiuta a semplificare i problemi, a coglierne gli aspetti essenziali, a trarre insegnamento da esperienze passate o di diverso contesto. E tuttavia la teoria, proprio perchè si alimenta dall'esperienza e dal dibattito scientifico, si evolve, non è mai definitiva, spesso è controversa.
E soprattutto, la teoria, che generalizza e semplifica, non può tener conto dei molteplici vincoli, specificità e incertezza che il manager normalmente fronteggia. Vincoli, specificità e incertezze che, come già riferito, sono probabilmente maggiori nel settore bancario.
Rievocando le parole di un celebre autore, "le teorie hanno dei doveri verso i fatti, mentre i fatti non hanno che diritti verso le teorie".
Cercherò di esemplificare questa problematicità facendo riferimento a tre scelte strategiche fra le più impegnative che il management bancario ha dovuto affrontare negli ultimi anni.
La prima è quella relativa alla diversificazione operativa; la seconda concerne i rapporti fra banca e territorio, la terza riguarda i processi di concentrazione.

4.1 La diversificazione

La teoria economica degli anni trenta scorgeva particolari pericoli insiti nella possibile commistione tra tipologie di banche e di operatività, tanto da essere recepita in testi normativi vincolanti per il banchiere.
Si era così in presenza della suddivisione del sistema bancario in categoria giurdiche, dell'ulteriore segmentazione operativa per tipologia di operazioni e loro durata, dell'impossibilità di operare in segmenti affini come quello assicurativo. Nel dicembre 1990,vi erano 92 Istituti e sezioni di credito speciale (mobiliare, opere pubbliche, agrario, fondiario ed edilizio) che rappresentavano oltre il 20 per cento del totale tra aziende di credito (escluse casse rurali e artigiane) e Istituti di credito speciale. Un'articolazione oggi totalmente scomparsa.
L'importante cambiamento normativo che ha prodotto l'eliminazione di tali barriere, non sono ha indotto i temuti rischi, ma anzi ha generato importanti fonti di reddito.
Integrando le attività di investment banking, la banca tradizionale può arricchire la gamma di strumenti di finanziamento e di servizi offerti alle imprese e ridurre le asimmetrie informative.
Citerò anche il caso della bancassicurazione, dove più netta è stata la separazione; una separazione che permane in numerosi paesi.
Operativamente, le cooperazioni fra sistema bancario e assicurativo è resa possibile dalla profonda complementarietà tra strumenti assicurativi e prodotti bancari.
Le società di assicurazione possono beneficiare della rete capillare degli sportelli bancari nonchè del rapporto fiduciario banca-cliente; le banche, da parte loro, possono ampliare il proprio portafoglio prodotti, ponendosi come referente globale nei confronti del risparmiatore.
Il successo dell'alleanza banca assicurazione è ormai nei fatti.
Attualmente in Italia le banche possiedono partecipazioni in oltre 70 società di assicurazione: in taluni casi, la banca ha il controllo esclusivo; in altri casi, si sono costituite joint venture; in altri ancora la banca esercita un'influenza notevole con partipazioni superiori al 20 per cento.
La quota di raccolta assicurativa nel ramo vita detenuta dagli sportelli bancari è molto elevata - poco meno del 60 per cento a fine 2001 - e ancora in crescita, chiaro segnale che le banche continuano a rafforzare la propria posizione nel comparto.
Il processo di evoluzione verso la banca universale e l'integrazione del settore della bancassicurazione, unitamente a quella del settore della gestione del risparmio, costituiscono il più chiaro esempio del processo di trasformazione in atto nel sistema bancario, finalizzato allo sviluppo dei ricavi. Tali sviluppi hanno anche consentito di riallocare capacità produttiva che risultava in eccesso in numerosi sistemi bancari europei, a seguito della riduzione della domanda tradizionalmente indirizzata all'attività di prestito e di deposito.
Le banche che sono riuscite a sviluppare più elevati livelli di efficienza sono quelle  che hanno maggiormente diversificato i propri prodotti e i propri ricavi. Risulta così che i processi di diversificazione dei prodotti e di miglioramento dell'efficienza operativa e di redditività sono tra loro strettamente collegati.
In sostanza, la diversificazione dell'attività bancaria, che si contrappone alla specializzazione degli intermediari e delle attività, era ritenuta particolarmente rischiosa;  si è invece rivelata una scelta con rischi contenuti e forti opportunità di profitto.

4.2 I rapporti fra banca e territorio

L'esperienza del rapporto tra banca e territorio nel nostro Mezzogiorno mostra come la teoria economica sia costretta a evolvere di fronte alla complessità dei problemi, e come le banche possano essere vittime dei fallimenti delle politiche economiche; sbaglia il banchiere che si affida ciecamente a esse. Su tale tema mi soffermerò un pò più a lungo anche per l'interesse che esso può avere in questa sede.
Le funzioni di allocazione delle risorse e di valorizzazione del risparmio sono svolte dalle banche in ambiti territoriali limitati. Tali ambiti dovrebbero essere, comunque, tali da consentire un'adeguata diversificazione del rischio. A causa della specializzazione e della frammentazione troppe banche locali non erano in Italia in queste condizioni. Sicuramente non lo erano molte banche meridionali.
Oggi, la globalizzazione e le nuove tecnologie sembrerebbero aver indebolito il rapporto banca-territorio. Ma non vi è dubbio che le attività di raccolta del risparmio e di concessione e monitoraggio del credito vengano svolte, e continueranno per lungo tempo a essere svolte, in ambiti territoriali delimitati.
Il rapporto tra banca e territorio diviene ancora più essenziale in un tessuto produttivo, come quello italiano, frammentato, caratterizzato dall'esistenza di numerose piccole e medie imprese, oggettivamente meno trasparenti all'informazione, ma anche con minore possibilità d'accesso ai mercati di capitali.
La relazione tra banca e territorio è comunque un rapporto complesso, che opera in senso non univoco. Per un verso, la finanza e il credito svolgono un ruolo cruciale nel determinare le condizioni di sviluppo di un'area e di un'economia. Dall'altro verso, il tessuto socioeconomico condiziona fortemente l'azione della banca, che con esso vive un rapporto di osmosi.
Ne consegue che la scelta di mantenere e consolidare un rapporto stretto con le economie locali presenta rischi e opportunità La casistica a riguardo offre evidenze numerose.
Nel corso degli anni ottanta la localizzazione delle reti delle Casse di Risparmio nelle aree marginali fornì, a non poche di esse, un sensibile vantaggio competitivo legato a uno sviluppo del reddito asimmetrico che in quegli anni penalizzava i comuni capoluogo - area di prevalente insediamento delle grandi banche - a vantaggio degli altri comuni minori.
Ulteriore caso emblematico è quello delle banche del Nord-Est, che negli anni novanta sono cresciute sulla spinta di un'economia locale in forte espansione.
Ancora più emblematico, ma in negativo, è il caso delle banche meridionali la cui grave crisi non può non essere messa in relazione con la fine dell'intervento straordinario e l'inasprirsi delle difficoltà attraversate dall'economia del Mezzogiorno nel corso del decennio precedente.
In questo caso il rapporto tra banca e territorio assume una dimensione di politica economica e si scontra con le teorie che affrontano il problema dell'arretratezza e del sottosviluppo.
Nel secondo dopoguerra la teoria dello sviluppo economico pose, in un primo tempo, l'accento sul ruolo degli investimenti e della grande impresa. Vi era poca fiducia nella capacità del mercato di generare crescita endogena, vi era molta fiducia sulla capacità dello Stato di mobilitare le risorse necessarie e di promuovere lo sviluppo.
Le banche pubbliche agirono in maniera funzionale a tale visione: parteciparono al finanziamento dei grandi progetti e favorirono la creazione di grandi aziende a partecipazione statale. Le banche meridionali puntarono sulla crescita economica locale.
Tale modello di intervento pubblico ottenne, soprattutto nella prima fase, importanti successi, particolarmente in termini di infrastrutturazione del Meridione. Tuttavia, attorno ai grandi poli industriali non si formò quel tessuto di imprese e capacità manageriali locali a essi direttamente o indirettamente legato e che avrebbero dovuto rendere lo sviluppo da esogeno a endogeno. Si incominciò a parlare di "cattedrali nel deserto". Alla lunga le stesse imprese pubbliche non ressero alla concorrenza internazionale.
Nel frattempo diminuiva la capacità di pensare in grande mentre cresceva il ruole dei sussidi generalizzati. L'intervento pubblico divenne sempre più  esposto a pressioni e condizionamenti politici estranei alle logiche economiche, mentre i trasferimenti di reddito generalizzati alimentavano le burocrazie, i parassitismi, in alcuni casi la criminalità.
E' dalla crisi dell'intervento pubblico nel Meridione che trae origine la crisi delle banche meridionali.
La situazione è radicalmente cambiato negli anni novanta. La teoria mette ora più enfasi sulle condizioni microeconomiche della crescita , sul ruolo del capitale umano, sull'importanza dei fattori ambientali: istituzioni, regole, finanza.
L'attenzione si sposta così sul sistema di istruzione, sulle regole del mercato del lavoro, sulla giustizia, sull'efficienza della pubblica amministrazione, sul funzionamento dei mercati finanziari. Si parla di fallimenti dello Stato non meno che di fallimenti del mercato.
Ad un intervento pubblico che voleva stimolare la crescita dall'alto si sostituisce un intervento che cerca invece strumenti nuovi per promuovere la crescita dal basso, puntanto sui giovani, nuove imprese, enti locali.
Tale politica propone un ruolo nuovo e più dinamico delle banche. Non si tratta più di seguire la grande impresa e di finanziare ogni iniziativa in qualche modo sostenuta da denaro pubblico. Bisogna ora esercitare a pieno il ruolo autonomo di valutazione del merito di credito e della fattibilità e sostenibilità di progetti industriali, anche piccoli; bisogna assistere la crescita dimensionale e la proiezione internazionale delle piccole imprese; bisogna partecipare attivamente, con enti locali e associazioni di categoria, alla creazione di un ambiente favorevole all’attività economica.
Dalla metà degli anni novanta si percepiscono alcuni positivi segnali di cambiamento: aumentano le iniziative individuali, le piccole e medie imprese private localizzate nel Mezzogiorno.
Si afferma la “vocazione dei territori”, ossia il dispiegarsi di diverse forme di aggregazione, che vanno dai distretti industriali veri e propri alle aree locali di sviluppo, agli strumenti di contrattazione negoziata.
Si tratta di processi in corso, all’interno dei quali si scorgono zone di luce e zone d’ombra, elementi che spingono con più forza verso la riduzione dei divari territoriali ed elementi frenanti, fattori di autentica novità e fattori che riflettono retaggi del passato.
Resta il fatto che il Mezzogiorno è in movimento è in movimento e che la maggior parte degli indicatori a partire dalla seconda metà degli anni novanta, segnala una fase di ripresa.
Tuttavia, molto resta ancora da fare. Il gap territoriale non si è ridotto. Anche sul versante del credito vi sono spazi di miglioramento.
L’ingresso delle banche esterne all’area e una aggressiva politica degli sportelli hanno innalzato il livello della concorrenza e l’efficienza del sistema. La maggior concorrenza ha avuto indubbiamente l’effetto di aumentare e rendere più funzionale l’offerta di prodotti per il risparmio, con conseguenze positive sulle scelte di investimento delle famiglie, che ormai hanno a disposizione la più vasta gamma di strumenti finanziari.
Più problematico è rimasto il rapporto banca-impresa. Lo stesso rapporto sofferenza/impieghi nel Mezzogiorno, seppure migliorato negli ultimi anni, rimane significativamente più elevato che nel resto del Paese, riflettendosi inevitabilmente sul costo del denaro.
Altri indicatori, tratti dal nostro Osservatorio sulle piccole e medie imprese mostrano talune diversità di comportamento nei confronti delle banche tra imprese del Centro-Nord e imprese del Mezzogiorno.
Innanzitutto, è più bassa la perrcentuale dei casi in cui la banca principale ha sede nella stessa provincia dell’impresa, pari al 57,5 per cento nel Mezzogiorno contro la media nazionale del 62,8 per cento. Questo indicatore sembra segnalare un legame più debole tra la banca e l’impresa. Un dato non sorprendente dopo tanti fallimenti.
In secondo luogo, sono molto più diffusi, ancorché spiegabili in termini di rischiosità relativa, i fenomeni di razionamento del credito. Infatti, la percentuale di imprese che hanno domandato una maggior quantità di credito senza ottenerla raggiunge il 6,6 per cento nel mezzogiorno contro un a media nazionale del 3,5 per cento.
Tutti questi indicatori sembrano segnalare una maggiore criticità del rapporto banca-impresa nel mezzogiorno.
Si tratta di non arretrare la presenza sul territorio, abbandonando le pratiche più ambigue dei vecchi “localismi” per sostituire ad essi una banca più attenta alle esigenze di crescita delle imprese, più pronta al supporto necessario in termini di servizi.
Ciò coinvolge, in particolare, le istituzioni dell’amministrazione locale, alle quali è richiesto un salto qualitativo di efficienza.
Come ebbi a rilevare già nel 1996 – in occasione del primo di un ciclo di vita di convegni sui problemi del mezzogiorno promosso dalla Banca di Roma, dal mediocredito Centrale e dalla fiat – sono inoltre, necessari interventi strutturali sul versante “reale”. Le politiche del lavoro, della formazione e dell’istruzione devono fare la loro parte.
Occorre, in particolare, rilanciare le infrastrutture. La dotazione infrastrutturale nel mezzogiorno è largamente più bassa di quella del centro-Nord, ed è inferiore di oltre il 25 per cento rispetto alla media europea. In certi settori, come l’energia e l’acqua, il gap rispetto all’Europa supera il 50 per cento.
Anche in questo campo un gruppo bancario integrato può dare il proprio contributo attraverso gli strumenti di finanziamento appropriati e la finanza di progetto.
Uno strumento, questo, per il cui pieno sviluppo sono forse ancora necessari interventi normativi, tali da aumentare la trasparenza (costi, tariffe, caratteristiche delle imprese) e ridurre i rischi.
Vi sono oggi le condizioni macroeconomiche e microeconomiche – a livello di efficienza degli intermediari bancari – per finanziare gli investimenti necessari. Poiché, peraltro, essi non decollano, ci si può forse chiedere se non si sia riproposto un vuoto da colmare: quello di un’istituzione pubblica di elevata professionalità che sia in grado di canalizzare le risorse verso le infrastrutture in modo efficiente e razionale.
In definitiva, il legame tra banca e territorio, spesso collegato alle potenzialità di successo della politica economica, si è rivelato un elemento di criticità cui il banchiere deve prestare particolare attenzione. Il problema del mezzogiorno, in particolare, pone esigenze pressanti a cui un gruppo bancario integrato può fornire risposte importanti; ma certamente non tutte le risposte.

4.3 I processi di concentrazione

Giungo così al tema delle concentrazioni.
Nell’ultimo decennio, il sistema bancario italiano è stato attore di un processo di concentrazione di portata molto vasta, che ha prodotto una nuova morfologia del sistema, nuovi modelli istituzionali e organizzativi e, più in generale, nuove modalità di esercizio dell’attività bancaria.
L’accelerazione dei cambiamenti è stata particolarmente sensibile negli anni più recenti.
Sono state realizzate operazioni di aggregazione che hanno dato vita a gruppi creditizi di rilevanti dimensioni. Negli ultimi cinque anni, al quota di attività riferibile ai primi cinque gruppi bancari è passata dal 35 per cento al 55 per cento circa del totale.
Cinque gruppi, fra i primi maggiori sei, hanno trovato origine in processi di concentrazione realizzati in questo periodo.
La crescita delle dimensioni era stata associata dalla scienza economica a diversi benefici per gli intermediari finanziari. Ricordo tra essi, le opportunità di diversificazione e di cross-selling di prodotti; i benefici in termini di riduzione delle asimmetrie informative<; le opportunità di miglioramento dell’efficienza operativa.
Il processo di concentrazione ha indubbiamente giovato al sistema bancario italiano che era in forte ritardo. È aumentato la gamma di prodotti offerti, limitata anche dall’eccesso di specializzazione. È diminuito il rischio associato all’eccesso di frammentazione e di localismo. Nell’ultimo decennio il “cost-income ratio” si è ridotto di circa dieci punti percentuali mentre i fondi intermediati per addetto, in termini reali, sono raddoppiati.
Tuttavia le concentrazioni effettuate sono state impegnative e più costose del previsto.
La ricerca economica per la verità, più dei consulenti e delle banche d’investimento, aveva già raggiunto, negli anni ottanta, risultati controversi sui benefici delle concentrazioni.
L’effettiva esistenza di economie di scala al di là del tratto iniziale della curva (quindi in corrispondenza delle dimensioni aziendali minori), era questione dibattuta, ma comunque accettata dall’opinione prevalente. Erano però concordemente ignorati e sottovalutati i costi di transizione delle concentrazioni, ossia i connessi aspetti organizzativi, tecnologici e di gestione delle risorse umane.
L’esperienza ha mostrato, invece, quanto importanti siano tali aspetti. I processi di aggregazione inevitabilmente comportano complessità e incertezza nelle definizione degli obiettivi aziendali, nei sistemi di gestione dei rischi, nelle procedure operative. A livello di organizzazione, rilevanti appaiono i costi di coordinamento necessari per realizzare la direzione unitaria, nonché le difficoltà di realizzare economie nei costi in relazione alla minore governabilità del processo produttivo e distributivo.
È emerso un gap tra il percorso desiderato e quello realizzabile. Gli effetti prodotti dall’operazione di concentrazione divergono spesso da quelli previsti, per effetto di errate valutazioni delle modalità di creazione di valore, delle difficoltà di realizzare i progetti di integrazione,o per la presenza di originarie problematiche nelle imprese coinvolte, che fanno disperdere risorse in lunghi processi di risanamento aziendale.
Le più recenti analisi empiriche confermano, infatti, che i guadagni di efficienza legati a operazioni di concentrazione si manifestano pienamente solo in tempi, molto lunghi; l’ampiezza effettiva di tali guadagni si è spesso rivelata inferiore rispetto a quanto annunciato al momento dell’operazione.
Il Rapporto Ferguson riconosce la problematicità delle concentrazioni. Esso sottolinea che le probabilità di successo sono maggiori in presenza di forti elementi di complementarietà. Ciò conferma che le fusioni fra banche di dimensioni rilevanti possano giustificarsi più sulla base di economie di diversificazione e di opportunità legate all’estensione della presenza territoriale che di economie di scala.
Infine, per il successo dell’integrazione la tutela e la valorizzazione dei “marchi” specifici – rappresentanti una consolidata tradizione operativa e la stratificazione di professionalità riconosciute – si sono rivelate condizioni indispensabili. Trascurare queste condizioni può determinare un irreparabile perdita di valore, non solo per un gruppo bancario, ma per l’intero sistema finanziario.
Il sistema bancario italiano aveva bisogno di concentrazione, per diversificarsi e rendere più solido il rapporto con il territorio. Le concentrazioni sono tuttavia risultate più complesse di quanto previsto e alto è stato il costo della transizione.

5. Uomini, tecnologia, organizzazione

Nell’intensa fase riorganizzativi in atto la gestione delle risorse umane ha acquisito rilevanza assolutamente critica.
L’adeguamento, più o meno radicale, delle strutture delle banche alle nuove opzioni dimensionali e di gruppo ha avuto conseguenze importanti in termini di coordinamento, di misurazione delle performance delle singole unità, di gestione del rischio, di allocazione e mobilità delle risorse.
L’approccio più diffuso tende a concentrarsi non su singole strutture ma sulla dimensione del “processo”, ritenuta la più idonea per far leva contemporaneamente sui due fattori critici della funzione di produzione di un’azienda bancaria: il fattore tecnologico e quello umano.
Ciò che distingue questo tipo di interventi da altre operazioni di razionalizzazione e riorganizzazione è proprio l’obiettivo volto a generare cambiamenti radicali in tempi relativamente brevi. Ne deriva che l’approccio più comunemente adottato è di tipo “top-down”, con interventi che presuppongono forti capacità dio leadership del manager, che deve realizzare una solida cooperazione delle strutture organizzative interne, spesso sulla spinta di un nucleo centrale di persone molto motivate.
Queste modalità di realizzo espongono al rischio di attriti e resistenze, che possono assumere grande intensità, in operazioni di fusione e aggregazione non pienamente condivise dal management e dalle principali strutture organizzative. In assenza di una leadership riconosciuta e di obiettivi convergenti, il coordinamento manageriale, in tali casi, può divenire così complesso da porre a rischio la riuscita stessa dell’operazione.
L’assunto per cui le risorse umane debbono essere coerenti con la nuova struttura organizzativa non può essere recepito nei suoi termini più rigidi.
Il personale non può mai essere considerato una variabile “modella bile” a piacere.
Ne discende anche che se in alcuni casi “eccezionali” le risorse umane possono coincidere con un “costo” da ridurre, in condizioni normali esse vanno considerate un’opportunità da valorizzare.
Non mi soffermerò su tutte le componenti investite dal cambiamento organizzativo degli ultimi anni. Cercherò di isolare quegli aspetti più direttamente coinvolti nei processi di concentrazione a cui ho fatto riferimento in precedenza: in primo luogo la cultura; in secondo luogo la gestione delle competenze e delle eccellenze di personale; in terzo luogo la “gestione delle conoscenze”.
La cultura costituisce a un tempo il senso di appartenenza all’azienda e il cemento dei comportamenti individuali ed è il fattore su cui è necessario investire con più tempestività. È forse questo un tema che è stato sottovalutato nelle concentrazioni bancarie in Italia.
Ogni operazione di concentrazione dovrebbe, invece, necessariamente prevedere un intervento “formativo” diffuso, tale da ricondurre a unità i valori  fondanti delle diverse banche componenti. A questo dovrebbe contribuire l’insieme di relazioni che una grande banca deve riuscire a sviluppare con il mondo delle università.
In fase aggregativi è poi inevitabile verificare competenze eccedenti. Ma è del pari probabile registrare competenze carenti ed è necessario – almeno nella fase iniziale del processo riorganizzativo – trattenere le “risorse di valore”.
La gestione degli esuberi è problema sempre complesso perché quasi mai sono disponibili modalità per effettuare una opportuna selezione delle competenze necessarie e da trattenere, nell’ambito dell’insieme delle risorse in eccesso.
Diviene problema ancor più arduo quando – come avvenne in occasione della prima fase del processo di concentrazione – non sono presenti i tipici e collaudati istituti di flessibilità e di gestione della mobilità, che hanno avuto e hanno ampia applicazione nel settore industriale.
A tale riguardo i maggiori progressi sono stati recepiti nel contratto di lavoro che è seguito alla prima fase di concentrazione. Questa è stata, quindi, penalizzata da condizioni di rigidità, successivamente in parte attenuate.
Un “ammortizzatore sociale” specifico di settore – di cui avevo, fra i primi, lamentato l’assenza – è stato, infatti, configurato solo all’inizio del 1998.
Vorrei inoltre rilevare che queste forme più radicali di ristrutturazioni oltre a un problema di gestione degli esuberi hanno fatto  emergere problemi che oggi vengono chiamati di “!gestione delle conoscenze” interne alle imprese (knowledge management). Sono problemi che noi stessi non avevamo previsto nella prima fase del processo aggregativo e che ora – con maggiore esperienza – ci apprestiamo ad affrontare.
Le concentrazioni, le ristrutturazioni, l’innovazione tecnologica, generano “instabilità” delle strutture organizzative, coinvolgono le risorse umane in processi di mobilità, determinano dispersione di conoscenza.
In un tale contesto si tratta di individuare e consolidare meccanismi di “conservazione”. Vi sono, infatti, patrimoni individuali di conoscenza, che non attengono solo a una professionalità più o meno replicabile. Vi sono anche esperienze stratificate nel tempo, nel contatto quotidiano con i problemi specifici e con la clientela, nel raffronto informale fra le best practice delle singole unità organizzative, nelle piccole “astuzie” cumulate a livello individuale e di squadra.
Se si vuole “mettere insieme” uomini e valori informativi e non solo procedure e tecnologia, sono necessari progetti specifici che trattengano conoscenza e informazione all’interno delle organizzazioni.
Questa esigenza si contrappone a talune visioni estreme che configurano gli sviluppi della tecnologia dell’informazione come una sfida cruciale al ruolo delle risorse umane e dell’insieme di competenze da esse rappresentato.
In Europa e in Itala, le banche rappresentano il settore trainante della tecnologia dell’informazione esprimendo intorno al 15-20 per cento della domanda complessiva (hardware, software e servizi).
Nell’ultimo decennio, la spesa in informatica, in rapporto al totale dei costi operativi delle banche italiane, si è aggirata intorno al 9-10 per cento, con punte più elevate in corrispondenza degli interventi per l’anno 2000 e di quelli relativi all’introduzione dell’euro e del vero e proprio changeover di valuta.
L’impatto sulle strutture organizzative delle banche di questa immissione di tecnologia è stato dirompente.
Senza tecnologia in grado di gestire ingenti masse di operazioni e rapporti di clientela non si sarebbe consolidato il modello della banca snella, contrassegnato da una piramide gerarchica relativamente piatta, dall’ampliamento dei livelli di delega e da un decentramento delle responsabilità.
Senza tecnologia, in periferia non si sarebbe alleggerita l’attività di “back office” delle filiali, non sarebbero nati gli sportelli leggeri, né si sarebbe affermata la complementarietà delle reti esterne di vendita e dei nuovi canali elettronici.
Ma fino a questo punto siamo ancora nel tradizionale paradigma “ambiente-strategia-struttura/tecnologia” che vede il processo causale partire dai mutamenti ambientali/istituzionali.
La realtà sembra, tuttavia, dimostrare che oltre un certo punto lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione non ha più solo seguito i processi organizzativi o si è adattato ad essi. Ad un certo punto la tecnologia non segue più ma “precede”; non è il vincolo alla realizzabilità di determinati business; diviene la determinante di nuove opportunità.
Le nuove potenti infrastrutture telematiche consentono non solo di veicolare prodotti e servizi bancari direttamente al mercato, ma anche di entrare in attività più o meno omogenee a quella bancaria, in qualche modo riportabili alla capacità che la banca ha acquisito, di gestire e trasferire informazioni.
È questa l’evoluzione che spiega l’e-banking nonché quella che vede le banche entrare nell’attività di servizio collegata alla “new economy”.
Il dibattito sull’e-banking, sulle strategie di diversificazione e integrazione dei canali distributivi delle banche è di particolare attualità e complessità.
Alcuni hanno visto al fondo di questa evoluzione – giudicata tale da produrre mutamenti irreversibili e di grande sui componenti “finanziari” di famiglie e imprese – una tendenza che porta all’indebolimento del tradizionale legame banca- territorio, al sacrifico degli sportelli, se non addirittura alla fine della banca tradizionale.
L'esperienza sul ''campo'' porta a valutazioni molto meno estreme. Come l'economia statunitense in questi anni ha prospettato, le imprese hanno una maggiore permeabilità a questi processi mentre i comportamenti delle famiglie appaiono molto più vischiosi di quanto alcune analisi facevano intravedere.
Sui tempi e i modi attraverso cui si procederà verso tale direzione vi è, in ogni caso, scarsa convergenza di opinioni. Ciò trasforma le decisioni di investimento in materia - delle banche e degli altri operatori interessati - in decisioni ad alto rischio, come alcune recenti vicende borsistiche, soprattutto negli Stati Uniti, hanno confermato.
In un contesto di notevole incertezza, il ventaglio delle opzioni strategiche deve essere mantenuto aperto. Una strategia distributiva incentrata sulla integrazione di più canali - sportelli tradizionali, promotori, banca virtuale - e un confronto con la clientela imprenditoriale articolato su produzioni specializzate (credito, finanza innovativa, servizi) consente, in una logica di gruppo, di presidiare con la necessaria duttilità, l'evoluzione del mercato.
Sarà cruciale la capacità dei gruppi bancari di utilizzare strutture organizzative flessibili per fronteggiare il più o meno raido arretramento di taluni importanti fronti operativi insieme al potenziamento di altre direttrici di intervento. Sarà cruciale la capacità di governo degli effetti sulle risorse e sui costi.
Sarà cruciale la capacità di controllo dei rischi, di stabilizzazione e recupero dei ricavi, di ricomposizione dell'intera catena di creazione del valore.
Questo è, in sintesi, quanto oggi mi suggerisce l'esperienza di oltre un decennio di operazioni di aggregazione e ristrutturazione nel sistema bancario. Questo è ciò che sembra richiedere la tumultuosa evoluzione del quadro competitivo.
Queste linee srtategiche e l'insieme di convincimenti maturati nel tempo sui modelli di governance, adeguati alla realtà di un grande gruppo bancario, sono alla base della nostra recente proposta di integrazione con il Gruppo Bipop-Carire che attende l'approvazione delle rispettive Assemblee straordinarie.
Si tratta di un'integrazione che vuole mantenere il collegamento stretto con il territorio e la permanenza delle attuali identità commerciali, proseguendo, nel contempo, un riequilibrio verso Nord della rete di sportelli e degli impieghi e, per questa via, una migliore diversificazione dei rischi. Punto di forza del nuovo Gruppo sarà, appunto, il modello di business multicanale volto ad accrescere le quote di mercato attraverso le opportunità di cross-selling di prodotti e servizi alla clientela e il forte inserimento nelle aree d'affari a più elevata crescita.
Gli obiettivi di recupero di efficienza deriveranno dalle sinergie di costo, realizzabili dalla ottimizzazione degli investimenti e delle spese nei canali distributivi, soprattutto quelli più innovativi o riferibili alle reti di promotori e negozi finanziari. Importanti economie di scala si renderanno disponibili dalla eliminazione delle duplicazioni tra società prodotto, attività e processi produttivi.
  
6. Conclusioni

Consentitemi di tornare, in sede di conclusioni, a quel particolare sistema di orientamento del banchiere che ho idealmente accostato alla ''bussola''.
Il primo riferimento - la specialità - segnala quanto aveva già rilevato Einaudi: ''le difficoltà dell'arte bancaria sono eccezionali''.
Il secondo punto di riferimento - l'autonomia - costringe il banchiere a una dimensione di ''solitudine''.
Il terzo punto di riferimento - confronto tra teoria e prassi - prepara il banchiere alla perseveranza della ricerca, pur nella coscienza dell'imprevedibilità del reale.
Il quarto e ultimo riferimento, mi riporta al valore dell'uomo, alla sua cultura e alle sue conoscenze.
Questo riferimento non attiene tanto alle decisioni del manager in genere o del banchiere in particolare, quanto alle categorie della libertà e dell'agire umano.
Parafrasando l'economista Amartya Sen, vorrei rilevare che ''il successo globale di un'impresa - e direi ancor più di una grande banca - è in larga misura un bene pubblico, da cui scaturiscono benefici collettivi, a cui tutti contribuiscono e che non può essere suddiviso in pezzetti, ciascuno composto dalla ricompensa specifica di ogni persona, commisurata al contributo specifico''.
Si vuole dire che nessuna organizzazione complessa funzionerebbe mai, nei suoi rapporti interni e verso l'esterno, se tali relazioni fossero spiegate unicamente dall'esistenza di ''contratti''- fra azionisti e management, fra impresa e dipendenti, fra impresa e clienti, e così via...- e se questi contratti includessero solo lo ''scambio'' di utilità individuali.
In questo senso il funzionamento ottimale e, soprattutto, il ''successo'' di un'impresa si realizza solo se il comportamento di tutti i soggetti rispecchia, in qualche misura, valori diversi dall'utilità, dall'egoismo individuale. Valori che, esplicitamente o implicitamente, si agganciano alla categoria dell'etica.
Il manager, il banchiere, per le responsabilità che gli derivano dalla ''specialità'' della banca, dalla libertà e autonomia del giudizio, dal forte coinvolgimento di uomini e risorse nelle scelte, non può non sentirsi, più di altri, coinvolto da questa dimensione etica dell'agire.

Vi ringrazio