Convegno sul tema: “Sistemi Bancari e finanziari Internazionali: Evoluzione e Stabilità”
Signor Governatore, Signor Presidente, Illustri relatori, Gentili partecipanti.
Sono ormai trent’anni che The Journal of European Economic History reca il suo contributo, universalmente apprezzato, alla conoscenza e all’approfondimento dei problemi economici e, in particolare, delle vicende finanziarie e bancarie dei Paesi europei.
È, dunque, nell’alveo di questa consolidata tradizione che la rivista ha ritenuto di promuovere la ricerca che oggi presentiamo e che interessa le vicende di ben otto Paesi dell’Unione Europea nel corso del XX secolo.
“Stabilità e “crisi” sono stati, e sono, problemi vivi e incombenti sull’economia del mondo, almeno a partire dalla “rivoluzione industriale” inglese. Al Journal, come alla Banca di Roma, è parso opportuno, tracciare un bilancio del contributo offerto dalle Banche centrali all’affermazione di una crescita economica non disgiunta dalla stabilità finanziaria e dall’efficienza.
L’impostazione del lavoro è stata discussa con esponenti dell’Ufficio Ricerche Storiche della Banca d’Italia. A questo prestigioso Ufficio della Banca d’Italia, che ha fornito preziosi contributi analitici alla storia economica del nostro Paese, e agli illustri relatori, vanno i miei più vivi ringraziamenti.
Consentitemi, inoltre, di esprimere un particolare ringraziamento al Prof. De Rosa per l’impegno e la competenza con cui dirige il Journal nonché alla Banca d’Italia per l’ospitalità che ci concede e per aver voluto valorizzare questa iniziativa ampliando l’oggetto del Convegno. Questo prevede, infatti, una seconda sessione dedicata alle “prospettive del sistema bancario e finanziario internazionale” che si aprono con il nuovo secolo. In tale sessione, alcuni tra i massimi protagonisti della politica monetaria internazionale porteranno il dibattito coltre l’analisi storica del Journal per approdare ai temi cruciali della riforma del sistema monetario e finanziario internazionale. È un evento che si segnala per la sua straordinarietà.
Avverto il particolare onore di parlare in questa Casa nella quale ho avuto il privilegio di lavorare per oltre 20 anni.
In questo mio intervento cercherò, di tratteggiare le linee generali del percorso analitico affrontato complessivamente nella ricerca, ove si esamina il dilemma fra stabilità e sviluppo e il modo in cui esso si è posto nel particolare contesto storico.
Isolerò quegli aspetti delle analisi più direttamente riferiti al mercato bancario, ai modelli di banche prevalenti e alle loro relazioni con le specificità nazionali.
Infine, avanzerò alcune riflessioni sull’azienda bancaria, come azienda sottoposta a regimi di governante più vincolanti, assumendo come emblematica l’evoluzione della Banca d’Italia dopo al legge bancaria del ’39.
Il percorso di ricerca
Si è voluto che l’analisi prendesse in considerazione un arco di tempo non breve, e cioè gli anni trascorsi dalla fine della prima guerra mondiale a oggi. In pratica, l’intero secolo XX, considerato che, nei circa quindici anni che precedettero la prima guerra mondiale, le due crisi economiche che si registrarono – nel 1904 e nel 1907-8 – non ebbero l’intensità di quella esplosa tra le due guerre mondiali, né si accompagnarono a fenomeni di instabilità monetaria.
Tenuto conto del ruolo allora svolto dalla sterlina, il sistema monetario internazionale, pur registrando alterazioni locali, continuò almeno in occidente a rimanere stabile, come lo era stato dall’indomani delle guerre napoleoniche. Ed è da supporre che se non fosse intervenuta la prima guerra mondiale avrebbe continuato ad esserlo.
La prima guerra mondiale segnò, in effetti, la rottura di un ordine economico che aveva consentito la diffusione dell’industrializzazione, il popolamento di nuove e ampie aree mondiali, un’eccezionale crescita del commercio mondiale, uno straordinario incremento dell’occupazione e del benessere. Ma soprattutto, segnò al fine del “Gold Standard”, sconvolgendo parità monetarie da tempo assestate e inoculando nei contesti economici il veleno dell’instabilità dei cambi e dei prezzi, oltre a incidere sui processi di sviluppo economico e a gettare il seme nefasto di nuove guerre.
La ricerca promossa dal Journal ha messo chiaramente in evidenza gli sforzi compiuti nel primo dopoguerra da tutti i Paesi per al ricostruzione di un ordine monetario internazionale, garante di stabilità e promotore di sviluppo. E se pure non furono evitati errori, come la deflazione in Italia e nel Regno Unito, e se non sempre fu tenuto conto dell’eccezionale rilievo destinato ad essere assunto dall’economia statunitense, è certo che, intorno al 1926, un ordine monetario era ristabilito pressoché ovunque.
Si era entrati nel “Gold Exchange Standard”.
Ma al ricostruzione di un ordinamento monetario non bastò a evitare al grande depressione degli anni ’30 che, come è stato ricordato, cominciata nel 1928 in Germania, esplose e si estese a tutte le aree del globo, nel corso del 1929, aggravandosi nel 1931, con le crisi bancarie dell’Europa centrale e della Germania e con al rilevante svalutazione della sterlina e delle monete della sua area. Il commercio mondiale si ridusse a livelli irrisori rispetto a quelli a cui in precedenza era pervenuto.
E qui, nell’affrontare le conseguenze della crisi, la ricerca del Journal opportunamente sottolinea il diverso comportamento dei singoli Paesi europei considerati e cioè le diverse azioni svolte dalle banche centrali e dai governi. Del resto, al di fuori del Regno Unito, più che di banche centrali, si trattava di Istituti di emissione, abilitati allo scontro diretto, e quindi in concorrenza con le banche commerciali, e inoltre non indipendenti nei loro interventi, ma sottoposte talvolta all’iniziativa dei governi.
La gravità della situazione economica portò, tuttavia, a esaltare la funzione di prestatore di ultima istanza degli Istituti di emissione; una funzione che diventerà loro peculiare di lì a qualche anno. La trasformazione di tali Istituti, sia pure con diversa gradualità, in banche centrali, confermò che a volte i mutamenti istituzionali, più che da decisioni consapevoli, si producono spontaneamente nella società e nell’economia.
Del resto, la stessa nascita degli Istituti di emissione, tra il 700 e l’800, non fu il prodotto di una visione razionale dell’organizzazione bancaria e monetaria, ma piuttosto al risposta a un bisogno di stabilità sempre più avvertito e diffuso.
La crisi economica del 1929, con le sue drammatiche conseguenze sociali, economiche e finanziarie e con l’insorgere nei principali Paesi di tendenze protezionistiche, mise in evidenza la necessità di strumenti adeguati per prevenire o, almeno, per limitare gli effetti negativi di così gravi sconvolgimenti. Non tutti però, misero mano a una regolamentazione.
Tra il 1926 e il 1928 in Italia l’Istituto di emissione si incamminava a divenire una vera e propria Banca centrale, dotata anche di poteri in materia di vigilanza creditizia.
La ricerca sottolinea come la maggiore assunzione di responsabilità da aprte delle banche centrali conferì un ruolo determinante alla politica monetaria ai fini del controllo del ciclo e dell’inflazione, fornendo un contributo basilare alla politica economica complessiva. Con le riforma seguite alla grande crisi, le banche centrali diventarono policy maker e “stabilità dei prezzi” e “stabilità bancaria” costituirono le due pietre miliari della regolamentazione finanziaria.
Il Regno Unito e l’Italia tennero unite queste due funzioni di regolamentazione finanziaria; altri Paesi assegnarono la “Stabilità bancaria” a enti diversi dalla banca centrale. Gli Stati Uniti preferirono, invece, una soluzione di compromesso.
Certo, non in tutti i Paesi le banche centrali assunsero il ruolo di policy maker. Dall’indagine risulta, per esempio che nel Belgio al Banca centrale non ebbe alcun controllo né sui flussi internazionali di capitale né sulla moneta bancaria; emerse che quella dei Paesi Basi svolse un ruolo passivo; che in Germania le pressioni di Hitler sulla Reichsbank, specie dopo il 1935, determinarono processi inflazionistici, oltre alle dimissioni, nel 1939, del Governatore Schacht.
La seconda guerra mondiale rese vano ogni tentativo di preservare la stabilità monetaria. Tra “stabilità monetaria” e “crescita economica”, così in Germania come negli altri Paesi impegnati nel conflitto, fu l’espansione economica a essere privilegiata, anche se a volte questo avvenne a scapito dell’efficienza del sistema.
L’indagine sottolinea come nei Paesi direttamente coinvolti nella guerra gli investimenti all’estero furono liquidati, le monete svilite dall’inflazione, le banche centrali ridotte a meri finanziatori delle spese di guerra.
Dal punto di vistra delle banche centrali, al situazione non si presentò, però, granché migliore nei Paesi che non parteciparono al conflitto. Nella Spagna che usciva da una tremenda guerra civile, le leggi bancarie approvate tra il 1939 e il 1942, più che esaltare, ridussero le prerogative del Banco de España, declassandolo ad appendice del Ministero delle finanze, con il compito di eseguirne gli ordini.
La seconda guerra mondiale, anche perché tragica, fornì alle classi dirigenti una lezione che non poteva essere ignorata. Le analisi sottolineano come esse si siano adoperate nel dopoguerra per al creazione di istituzioni internazionali, per il coordinamento delle politiche macroeconomiche e per la stabilità monetaria, in un contesto in cui gli Stati Uniti, divenuto il solo grande creditore dell’economia internazionale, forniva l’indispensabile sostegno per favorire la ricostruzione dell’Europa.
Iniziò così un periodo nel quale non ci fu quasi conflitto tra crescita economica, stabilità monetaria ed efficienza. Non solo, ma di apri passo con la crescente propensione delle famiglie verso gli investimenti in titoli, si affermarono le tendenze all’internazionalizzazione delle economie, nel cui ambito prese forma il processo di integrazione europea. Proprio l’opposto di quanto era accaduto fra le due guerre mondiali.
A riflesso di questa trasformazione, le banche centrali vennero ad assumere un ruolo nuovo. Dopo avere finanziato i bisogni della guerra e dell’occupazione, esse assicurarono, chiuso il capitolo dell’inflazione post-bellica, il loro contributo alla ricostruzione e alla modernizzazione delle economie in quasi tutti i Paesi europei.
Questo periodo durò fino agli inizi degli anni Settanta, e si concluse con il tramonto degli accordi di Bretton Woods e con il primo shock petrolifero. Iniziò una fase nuova in cui si cominciò ad attribuire maggiore importanza agli obiettivi dell’efficienza e della crescita.
I sistemi bancari
Esaurita la descrizione di questo percorso complessivo della ricerca, mi soffermerò ora sui relativi riflessi nei mercati bancari.
Sotto il profilo delle banche, il secolo XX si aprì in Europa con la presenza di modelli consolidati, ereditati da esperienze storiche, forgiati a condizionamenti istituzionali e strutture economiche profondamente diverse.
Le interpretazioni storiche più accreditate – i lavori di Gerschenkron e di Cameron in particolare – individuarono una relazione fondamentale fra struttura finanziaria e stadio di sviluppo del sistema produttivo. In sostanza, quanto più lento e tardivo è l’avvio di un paese all’industrializzazione, tanto più questa dipende dalle banche e, nei paesi più arretrati, dallo Stato.
La funzione di stimolo all’accumulazione che in Inghilterra era stata assolta all’imprenditoria privata, nell’Europa continentale, in ritardo rispetto al processo di rivoluzione industriale, venne affidata alla banca e allo Stato. Quando poi al banca “privata” si dimostrò inadeguata è comprensibile che sia entrata in campo al banca “pubblica”.
Alimentati da queste diverse esperienza si svilupparono due modelli paralleli che convergeranno solo negli ultimi decenni del secolo appena terminato. Quello “inglese”, essenzialmente “orientato ai mercati”, in cui al banche sono prevalentemente “banche di deposito”. Quello “continentale”, in cui il processo di intermediazione è dominato dalle banche, che spesso – come in Germania e in Italia – sono “banche miste”, che concedono finanziamenti a lungo termine e sono legate da relazioni strette con l’impresa.
Su questo quadro si riversarono gli effetti della grande depressione e le crisi bancarie degli anni ’30.
La gravità della crisi suggerì discipline che imposero limiti alla concorrenza sia negli Stati Uniti sia in Europa. Il rischio che da ciò potessero derivare forme di oligopolio non sembrò un costo eccessivo “per assicurare solidità e stabilità all’interop sistema bancario”. I controlli strutturali, gli ostacoli all’ingresso nel mercato a nuove banche e sportelli, i limiti alle attività e passività divennero caratteristiche dei sistemi bancari di non pochi paesi.
Nonostante i duri colpi subiti dalla crisi industriale degli anni ’30, la “banca mista” venne mantenuta in alcuni paesi, spesso nella variante più tranquillizzante di “banca universale”. In altri sistemi, invece, scomparve, per cedere il passo alla banca specializzata, dove alla scadenza della provvista di fondi corrisponde analoga scadenza nei loro impieghi.
Sotto il profilo proprietario, invece, il modello della “banca pubblica” ottenne una notevole diffusione. Oltre ad emergere quale conseguenza delle crisi bancarie collegate alla grande depressione, essa aveva anche una sua tradizione autonoma che risale al XVIII secolo ed è legata all’esperienza delle casse di risparmio.
Queste istituzioni pubbliche senza finalità di lucro, nate per incoraggiare il risparmio popolare, si erano diffuse in Europa a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quasi in “contrapposizione” alle banche tradizionali, orientate a privilegiare i rapporti con la grande industria. Nell’esperienza dell’Europa continentale queste banche rappresentano, in nuce, il modello della banca retail, al cui fortuna è collegata allo storico spostamento del reddito a favore dei salari e alla formazione del risparmio alle famiglie.
Dopo gli anni ’30 il modello della “banca pubblica” andò consolidandosi come la forma di governante più opportuna per garantire un’allocazione del credito tutelata dalle interferenze delle grandi imprese.
Dalla seconda metà degli anni ’70, si èd etto, la questione dell’efficienza cominciò a prendere peso e, insieme a essa, quella della concorrenza.
Le banche dovevano cioè comportarsi non diversamente dalle altre imprese, e competere sul mercato per i prodotti e le risorse finanziarie. Ma su quale mercato, tenuto conto che ciascun Paese aveva creato ostacoli e condizionamenti in difesa del proprio sistema finanziario?
Ed è qui che lo sbocco della Comunità europea diviene particolarmente importante. Fino al 1981 si era ritenuto che le direttive comunitarie sulla liberalizzazione degli scambi non si applicassero alle banche, e, in effetti, ciascun Paese aderente alla CEE aveva legiferato in materia bancaria e finanziaria sulla base delle proprie tradizioni e del grado di sviluppo istituzionale ed economico raggiunto.
In effetti, nel determinare un’accelerazione del processo di liberalizzazione vi è stata un’azione congiunta tra spinte propulsive impresse dalle Autorità monetarie, particolarmente in Italia, ed effetti delle Direttive Comunitarie.
I caratteri delle banche in Italia
Il lungo percorso della ricerca – che ho cercato di riassumere – riferisce dell’impiego delle Autorità monetarie a risolvere, nelle diverse fasi, il dilemma tra stabilità – dei prezzi e delle istituzioni – e la crescita.
L’evoluzione delle politiche monetarie e bancarie non può però eludere il problema della peculiarità dell’azienda bancaria. Un’impresa necessariamente sottoposta a regimi di governante e a controlli più vincolanti rispetto ad ogni altra impresa.
Tra le due guerre tali vincoli divennero particolarmente forti, a riflesso di fasi di eccezionale instabilità, in un clima culturale e politico spesso ostile al mercato. Nel secondo dopoguerra essi vennero rimossi con gradualità poiché permanevano ostacoli originari da residue imperfezioni del mercato.
Non a caso tali vincoli, che pure limitano le prerogative delle banche, vennero dalle stesse banche ritenuti necessari e adeguati alla funzionalità del sistema.
Di tale complesso rapporto tra politica bancaria e azienda banca è chiaro esempio la vicenda del sistema bancario italiano, su cui vorrei soffermarmi brevemente. In Italia, il rapporto tra industrializzazione e ruolo della banca richiama chiaramente le citate tesi del Gerschenkron.
I caratteri specifici del sistema bancario in Italia sono andati costituendosi, a partire dagli anni ’30, sull’impulso della legge bancaria, nonché delle politiche del credito attuate dalla Banca d’Italia e partire dal secondo dopoguerra. È in questa fase che il sistema bancario italiano assume una sorta di “imprinting” e manifesta i suoi caratteri originari.
Al momento della crisi degli anni ’30 il caso italiano presentava condizioni di maggiore fragilità: un tessuto economico arretrato e un forte dualismo territoriale; un insufficiente risparmio interno; una rilevante concentrazione del capitale industriale e una modesta presenza di capitale finanziario; esperienza ancora brucianti di quella che era stata chiamata “mostruosa fratellanza siamese” fra banca e industria.
È tale contesto che rende l’obiettivo della stabilità centrale nella disciplina di vigilanza. Nascono qui il principio della “separatezza” fra banca e industria e il vincolo di “specializzazione”, che sottraeva il credito mobiliare alle banche e consentiva l’applicazione di una molteplicità di strumenti di controllo sull’operatività delle aziende di credito.
A questo quadro si aggiungono gli effetti della politica bancaria strutturale, con l’autorizzazione alla costituzione di banche e all’apertura di sportelli. una politica che aveva,. Quale obiettivo prioritario, quello di completare la “bancarizzazione” dell’Italia attraverso una più capillare e diffusa rete di istituzioni locali, soprattutto casse di risparmio.
Si consolida in questa fase, infatti, una delle direttrici centrali della nostra politica di credito. Essa rifletteva la necessità di adeguare la struttura dell’offerta di credito nel nostro Paese ad un’economia in cui è particolarmente forte il peso dei “localismi” e delle piccole e medie imprese.
In quest’ottica, le banche medie e piccole a forte radicamento territoriale potevano disporre di sostanziali vantaggi informativi rispetto alle banche maggiori e, quindi, potevano perseguire una migliore allocazione del credito. In più, si riteneva che le banche minori potessero meglio garantire il reinvestimento del risparmio finanziario nelle aree stesse della raccolta. Un obiettivo, questo, a cui miravano anche gli ostacoli posti al trasferimento interbancario dei fondi.
Interessante è, inoltre, l’atteggiamento delle Autorità nei confronti della concorrenza venuto affermandosi in quegli anni. Emblematico è il formale riconoscimento di comportamenti limitativi della concorrenza, quali quelli rappresentati dal “cartello” sui tassi passivi.
A riguardo è difficile pensare che uomini come Einaudi e Menichella fossero insensibili alle esigenze di tutela della concorrenza e ispirati alle istanze del dirigismo. Manichella, in particolare, era portato in quella fase a considerare che il rischio prevalente non era “dentro” il sistema bancario ma esterno ad esso. Era il rischio della ricostituzione degli oligopoli industrial-finanziari a danno dei consumatori e delle piccole e medie imprese. In questa logica, anche uno strumento poco ortodosso come il “cartello”, evitando un’onerosa concorrenza sulla raccolta, mirava a ridurre il costo del credito alle imprese finanziariamente meno autosufficienti.
La condivisione da parte di illustri esponenti dell’economia e del pensiero liberale del ruolo che la banca pubblica svolgeva in quel momento conforta l’interpretazione che tale ruolo fosse, nella sostanza, “concorrenziale”: doveva garantirne l’indipendenza – ed in effetti la garantì – dai condizionamenti delle grandi imprese.
Quali le conseguenze di tutto ciò sui caratteri della banche e la morfologia del sistema? Un sistema bancario più frammentato e un mercato con forti segmentazioni.
Grandi banche più propense ad operare in una logica istituzionale e con potenzialità di sviluppo, qualitativo e quantitativo, in qualche modo “guidate”, sia dalla politica strutturale, sia dalla specializzazione operativa.
Ma questi eventi vanno storicizzati. Gli obiettivi di stabilità e crescita indubbiamente furono conseguiti, se è vero che l’Italia, nel primo quindicenni ode l dopoguerra, realizzò una combinazione di crescita e stabilità monetaria fra le più favorevoli nell’ambito dei paesi occidentali. E se è vero che nessun fenomeno di crisi bancaria in grado di porre a rischio la stabilità del sistema si verificò prima del 1974.
Questa evoluzione virtuosa si interruppe quando, sulla spinta dell’evoluzione ambientale, i potenziali effetti negativi associati a quelle scelte di politica bancaria presero corpo e cominciarono a prevalere sui relativi benefici.
E così, ben presto, emerse l’evidenza che l’effetto netto dei limiti alla concorrenza non giocava a favore di un contenimento della forbice bancaria, bensì a favore di un suo ampliamento a motivo della progressiva crescita delle inefficienze nel sistema.
Ci si rese conto che non la regolamentazione tout court ma quel tipo di regolamentazione e protezione dei mercati rischiavano di soffocare le responsabilità manageriali e depauperavano di capacità imprenditoriali il sistema.
Divenne palese che l’indipendenza dall’impresa non coincideva sempre con l’indipendenza “della” banca, perché nel frattempo erano fortemente aumentati i condizionamenti. Il delinearsi di orientamenti favorevoli all’intervento dello Stato nell’economia, il ruolo delle holding pubbliche e le esigenze della programmazione economica facevano crescere il rischio di concepire il credito come uno degli strumenti di intervento sull’economia.
Se la “stabilità” delle banche pubbliche era ancora tutelata, il crescere delle inefficienze, associato alla carenza di regole corporate governante e alla opacità dei rapporti con il mercato, non offriva sufficienti garanzie sul versante delle banche provate. Tra queste, infatti, si produssero gli episodi di crisi più preoccupanti.
L’azione della riforma iniziò dai mercati, quando si pose il problema di migliorarne la funzionalità, sia per favorire il finanziamento dei fabbisogni pubblici, sia per garantire l’efficacia della politica monetaria dopo la transizione dagli strumenti amministrativi e diretti (massimali e vincoli di portafoglio per le banche) agli strumenti di mercato e indiretti (operazioni di mercato aperto).
Seguì la fase della deregolamentazione con il superamento della “specializzazione”.
Si regolamentò l’accesso delle imprese con finanziarie nel capitale delle banche e si avviò il processo di privatizzazione, reso possibile dai successi del risanamento della finanza pubblica. Si liberarono le spinte alla concentrazione.
Ne scaturì una banca avente tutti i connotati della società privata ma sottoposta a più intense regole di trasparenza e di governance.
Le linee generali di questa trasformazione, che ha portato, negli ultimi otto anni, il peso della componente pubblica delle banche sui valori più bassi in Europa e il grado di concentrazione su livelli non dissimili da quelli dei principali paesi partner, sono ormai fin troppo note. Si è così realizzata quella che è stata chiamata “difficile metamorfosi”.
Sotto la spinta della Banca centrale si è verificato un eccezionale processo in innovazione trasformazione nel campo creditizio e finanziario. Ha caratteristiche e dimensioni più rilevanti della trasformazione post-bellica e della ristrutturazione degli anni ’30. Come è stato autorevolmente ribadito, il processo non è concluso, ma ha bisogno di razionalizzazione, effettiva integrazione tra i soggetti che hanno partecipato alle iniziative di aggregazione, di forti interventi nel campo dei modelli organizzativi e dei controlli interni.
Riflessioni conclusive
Sul caso italiano il Convegno si avvarrà del lucido contributo del Prof. Onado. Da tale contributo traggo al sollecitazione che mi porta ad alcune riflessioni conclusive.
Dopo la “difficile metamorfosi”, quali sono le responsabilità del sistema finanziario nei confronti del rallentamento che ha investito il sistema economico italiano nell’ultimo decennio?
Il sistema finanziario italiano, a partire dal 1993, ha registrato progressi decisivi che hanno riguardato gli ordinamenti, i controlli, la corporate governante, gli assetti competitivi. I singoli operatori – e segnatamente le banche – hanno mostrato una capacità di reazione da molti sottovalutata, cogliendo opportunità e sollecitazioni per raggiungere livelli di efficienza e di performance ormai allineati a quelli delle altre banche europee.
Progressi sul piano dell’efficienza e dell’efficacia dell’offerta produttiva sono ancora possibili e necessari. Talune componenti importanti dei ricavi da servizi – quelli del risparmio gestito – che hanno compensato la strutturale correzione del margine di interesse, hanno potuto giovarsi di un ciclo internazionale e di condizioni interne eccezionalmente favorevoli.
Si tratta ora di consolidare queste fonti di ricavo in un più problematico contesto competitivo. Sarà necessario diversificare l’offerta di servizi nelle aree della finanza innovativa per le imprese, recuperando i ritardi accumulati rispetto alla concorrenza estera, soprattutto in termini di professionalità delle risorse coinvolte. Sarà necessario insistere nelle esperienze della “banca telematica” e delle attività connesse che oggi moltiplicano le dimensioni e le prospettive della tradizionale attività del credito. Permangono ampie opportunità di riutilizzo delle potenzialità della information technology nella riconfigurazione dei sistemi organizzativi delle banche,s segnatamente nelle fasi del monitoraggio dei processi, dei controlli e della formazione interna.
Si è detto – e non posso non concordare – che i ritardi non sono peculiari alla finanza. Il ristagno dell’economia italiana negli anni novanta ha determinanti “reali”. Risiede, soprattutto nelle ritardate riforme del quadro istituzionale e normativo, nelle rigidità del mercato del lavoro, nel malfunzionamento del sistema di tutela dei diritti, nelle inefficienze della struttura amministrativa, nella qualità dell’istruzione superiore. Tutto ciò si scarica sulla nostra capacità di competere.
Al processo di risanamento occorre dare seguito con le riforme strutturali, intervenendo sulla spesa e proseguendo con decisione nella riduzione della pressione fiscale. Non è rinviabile la revisione dello Stato sociale.
Leggi, amministrazioni, giustizia, formazione del capitale umano devono essere leve per sostenere un più forte sviluppo. Abbiamo bisogno di crescere di più. Sono obiettivi comuni a tutti. Hanno il prioritario fine di una lotta efficace contro al disoccupazione.
Il sistema bancario spesso “riflette”, non genera ritardi.
Aggiungo che la riflessione dovrebbe concentrarsi il Mezzogiorno, ove il problema è più acuto perché non sono presenti rilevanti “compensazioni” sul piano del reddito, delle flessibilità,d elle infrastrutture e della coesione imprenditoriale.
Il Governatore Fazio, nel solco della più alta tradizione che mette capo a Menichella, ha più volte sollecitato con grande impegno in questo versante.
La ricerca promossa dal Journal costituisce un’analisi del passato. Essa si propone essenzialmente di stimolare riflessioni. Non di definire soluzioni e prospettive concrete. All’impegno di tutti è affidato il compito di ricercare le azioni per avviare una nuova, ancor più difficile, “metamorfosi”.
Vi ringrazio.