«La democrazia in Tunisia? La mia tv ha raccontato tutto»
Corriere della Sera
«I fondi sovrani non appartengono ai leader ma ai Paesi arabi». Tarak Ben Ammar: Della Valle e Rcs? Vedo qualche conflitto d'interesse
Lunedì 7 marzo Tarak Ben Ammar è venuto per poche ore a Milano dove «non metteva piede da un mese» perché doveva occuparsi delle sue aziende in Tunisia. ovvero degli studios di Cartagine dove, per dirne una, Jean-Jacques Annaud ha appena finito di girare «Oro nero», colossal epico con Antonio Banderas, ma soprattutto di Nesma, la televisione che gestisce in comproprietà con Mediaset. Ma dove voleva anche «dare una mano a costruire la democrazia nel suo paese». Però, siccome in Italia le cose non stanno ferme e tra signori del salotto buono si litiga su chi ha ormai fatto epoca e chi invece vorrebbe farla, ha pensato bene come consigliere di Mediobanca e di Telecom, nonché amico da sempre di Silvio Berlusconi, d'esser titolato a dire la sua sulle vicende che stanno mettendo l'un contro l'altro capitalisti e capitali.
Signor Ben Ammar, perché secondo lei il denaro dei fondi sovrani non puzza?
«Perché trovo ipocrita scoprire solo adesso che non c'è democrazia nei paesi dei fondi sovrani arabi, specie in quelli che come produttori di petrolio fanno affari con l'Occidente. Per non dire di altri paesi, come Russia, Cina e Iran».
Finora però nessun capo di fondi sovrani aveva bombardato la sua gente.
«Infatti per quel che riguarda la Libia è un problema molto serio».
Lei che è tunisino non si era accorto che nel Nord Africa stava per scoppiare la rivolta?
«Sapevo che i giovani tunisini avevano voglia di libertà, dignità e lavoro.
Quel che tutti non avevamo previsto è stata la rapidità con cui il loro bisogno è
esploso. Ma il sacrificio del giovane martire Bouzizi che si è dato fuoco diventando
il simbolo della rivolta, ha risvegliato nel popolo il senso dell'ingiustizia».
Fino a ieri era buon amico di quel Ben Alì che adesso critica.
«Ben Ali ha estromesso dal potere la mia famiglia, mio zio Habib Bourguiba, il padre dell'indipendenza tunisina. Ne ha consolidato i risultati in fatto di libertà delle donne, educazione obbligatoria per tutti e lotta al fondamentalismo. Ma malgrado le promesse non ha instaurato la democrazia».
Come è messo con i nuovi arrivati?
«Fouad Mebazaa, l'attuale presidente della Repubblica, fu capo gabinetto e ministro
di Bourghiba, così come il nuovo primo ministro Beji Caid Sebsi era il titolare degli Esteri».
E la sua televisione come si è comportata?
«Nesma, è stato l'unico tra i media arabi a criticare un regime ancora al potere. Il 30 dicembre ha fatto una diretta dando voce agli oppositori, tanto che il giorno dopo Ben Alì mi ha chiamato infuriato minacciando di chiudere l'emittente».
Tremonti sostiene pragmaticamente che i sovrani passano ma i fondi restano.
«E ha ragione, sono il frutto della ricchezza della terra araba. Sono del suo popolo e non di un solo leader».
Secondo lei il governo italiano non deve rimproverarsi di aver accolto Gheddafi con tutti gli onori e dato corda alle sue bizze?
«Ognuno ha i suoi metodi e costumi. Nel caso di Berlusconi e Gheddafi l'obiettivo era che l'Italia riconoscesse che il colonialismo dell'epoca fascista fu un'ingiustizia
e un errore storico. Il fatto che sia stato l'unico paese occidentale a farlo rimarrà nella storia».
Abdulhafed Gaddur, l'ambasciatore libico a Roma che è stato molto legato a Gheddafi, ha abiurato per tempo.
«Gaddur è patriota libico e una persona molto per bene, è stato l'architetto della pace tra il suo paese e Italia. Se lui ha rinnegato Gheddafi, avendo la sua famiglia in Libia, vuol dire che è venuto a conoscenza delle atrocità del regime. Il suo non è stato opportunismo, ma coraggio».
Veniamo a cose più prosaiche, e più italiane. Lei sta con Geronzi o Della Valle?
«lo non amo la polemica pubblica tra un presidente e un amministratore, i panni sporchi si lavano in famiglia».
Della Valle dice che il mondo cambia e anche il capitalismo italiano deve cambiare di conseguenza.
«Condivisibile. Ma perché dice di credere nel futuro della Rcs e di essere pronto a investirci più soldi e poi chiede a Generali, che di Rcs è azionista, di venderà la sua quota? Mi sembra un controsenso».
Della Valle dice anche: basta con chi comanda senza metterei i soldi
Primo: in Generali il potere operativo lo ha Giovanni Perissinotto, non Geronzi. Leggo sui vostri giornali che alcuni amministratori si stanno interrogando sulla congruità di certe operazioni fatte in Russia e con il finanziere Kellner. Se fossi Della Valle mi preoccuperei più di quelle che di Rcs. Secondo: la partecipazione della compagnia in Rcs risale a molto tempo prima che Geronzi ne diventasse presidente. Sul tema poi penso che Diego potrebbe essere sospettato di un piccolo conflitto di interessi.
Cioè?
«Lui è azionista di Rcs, ma non di Generali. Come amministratore di Generali ha diritto di parlare, ma in consiglio. E come socio di Rcs può parlare, ma non alimentare il sospetto di farlo per il proprio interesse. Anche se ammetto che la società convive con un peccato originale: l'avere un patto di sindacato che vincola
quasi il 70% delle azioni di una compagine con troppi soci».
Lei è amministratore di Mediobanca, che è primo azionista di Rcs. Invece di parlare si faccia promotore del suo scioglimento.
«Posso dirlo in Consiglio di Mediobanca, non sui giornali. Altrimenti ripeterei l'errore di Della Valle. Ma in passato ho dichiarato che un giornale deve avere un editore, non 17. Se Della Valle vuole il Corriere chieda lo scioglimento del patto e se lo compri. Faccia l'editore, mestiere che gli piace particolarmente».
Per sciogliere un patto bisogna che gli altri siano d'accordi. Lei lo è?
«Se usciamo tutti dal patto Rcs io sono perché lo faccia anche Mediobanca.
Per il Corriere si copi Le Monde, che ha un paio di azionisti forti più delle quote
in mano ai giornalisti».
Se lei fosse stato Geronzi avrebbe fatto quell'intervista al "Financial Times" che tanto ha urtato i soci?
«No, non l'avrei fatta così. Ma conoscendo bene Geronzi so che voleva dire che una società italiana così importante per il bene del paese non può ignorare il sistema economico dove opera».
Più che per quello del paese, gli azionisti vogliono che operi per il loro bene.
«Gli azionisti non si sono irritati per l'intervista al Financial Times, quanto perché sanno che in un sistema di investimenti che non si tiene sono scarse le possibilità di migliorare i risultati».
In che senso non si tiene?
«Siccome non faccio parte del consiglio di Generali non voglio commentare».
Il suo amico Vincent Bolloré è contento di come sta andando la compagnia di cui è vicepresidente?
«Avendo investito molto in Mediobanca è chiaro che per Bollore Generali è sempre stata importante. È contento dalla presidenza di Geronzi, della qualità del consiglio, un'opinione che del resto lo stesso Della ha fatto sua».
Pensa che il capitalismo di relazione in Italia sia in affanno?
«E' così in tutto il mondo, anche se il capitalismo di relazione è quello che ha portato il sottoscritto nei consigli di Mediobanca e Telecom, e Della Valle in quelli di tante altre società».
A proposito di Telecom. Riconfermerete Franco Bernabé alla sua guida, magari come presidente?
«Decide Telco, ma posso dire come amministratore che siamo contenti dei conti, della riduzione del debito e delle strategie in Sud America. Dunque di Bernabé che ne è l'artefice».
Paolo Madron
Signor Ben Ammar, perché secondo lei il denaro dei fondi sovrani non puzza?
«Perché trovo ipocrita scoprire solo adesso che non c'è democrazia nei paesi dei fondi sovrani arabi, specie in quelli che come produttori di petrolio fanno affari con l'Occidente. Per non dire di altri paesi, come Russia, Cina e Iran».
Finora però nessun capo di fondi sovrani aveva bombardato la sua gente.
«Infatti per quel che riguarda la Libia è un problema molto serio».
Lei che è tunisino non si era accorto che nel Nord Africa stava per scoppiare la rivolta?
«Sapevo che i giovani tunisini avevano voglia di libertà, dignità e lavoro.
Quel che tutti non avevamo previsto è stata la rapidità con cui il loro bisogno è
esploso. Ma il sacrificio del giovane martire Bouzizi che si è dato fuoco diventando
il simbolo della rivolta, ha risvegliato nel popolo il senso dell'ingiustizia».
Fino a ieri era buon amico di quel Ben Alì che adesso critica.
«Ben Ali ha estromesso dal potere la mia famiglia, mio zio Habib Bourguiba, il padre dell'indipendenza tunisina. Ne ha consolidato i risultati in fatto di libertà delle donne, educazione obbligatoria per tutti e lotta al fondamentalismo. Ma malgrado le promesse non ha instaurato la democrazia».
Come è messo con i nuovi arrivati?
«Fouad Mebazaa, l'attuale presidente della Repubblica, fu capo gabinetto e ministro
di Bourghiba, così come il nuovo primo ministro Beji Caid Sebsi era il titolare degli Esteri».
E la sua televisione come si è comportata?
«Nesma, è stato l'unico tra i media arabi a criticare un regime ancora al potere. Il 30 dicembre ha fatto una diretta dando voce agli oppositori, tanto che il giorno dopo Ben Alì mi ha chiamato infuriato minacciando di chiudere l'emittente».
Tremonti sostiene pragmaticamente che i sovrani passano ma i fondi restano.
«E ha ragione, sono il frutto della ricchezza della terra araba. Sono del suo popolo e non di un solo leader».
Secondo lei il governo italiano non deve rimproverarsi di aver accolto Gheddafi con tutti gli onori e dato corda alle sue bizze?
«Ognuno ha i suoi metodi e costumi. Nel caso di Berlusconi e Gheddafi l'obiettivo era che l'Italia riconoscesse che il colonialismo dell'epoca fascista fu un'ingiustizia
e un errore storico. Il fatto che sia stato l'unico paese occidentale a farlo rimarrà nella storia».
Abdulhafed Gaddur, l'ambasciatore libico a Roma che è stato molto legato a Gheddafi, ha abiurato per tempo.
«Gaddur è patriota libico e una persona molto per bene, è stato l'architetto della pace tra il suo paese e Italia. Se lui ha rinnegato Gheddafi, avendo la sua famiglia in Libia, vuol dire che è venuto a conoscenza delle atrocità del regime. Il suo non è stato opportunismo, ma coraggio».
Veniamo a cose più prosaiche, e più italiane. Lei sta con Geronzi o Della Valle?
«lo non amo la polemica pubblica tra un presidente e un amministratore, i panni sporchi si lavano in famiglia».
Della Valle dice che il mondo cambia e anche il capitalismo italiano deve cambiare di conseguenza.
«Condivisibile. Ma perché dice di credere nel futuro della Rcs e di essere pronto a investirci più soldi e poi chiede a Generali, che di Rcs è azionista, di venderà la sua quota? Mi sembra un controsenso».
Della Valle dice anche: basta con chi comanda senza metterei i soldi
Primo: in Generali il potere operativo lo ha Giovanni Perissinotto, non Geronzi. Leggo sui vostri giornali che alcuni amministratori si stanno interrogando sulla congruità di certe operazioni fatte in Russia e con il finanziere Kellner. Se fossi Della Valle mi preoccuperei più di quelle che di Rcs. Secondo: la partecipazione della compagnia in Rcs risale a molto tempo prima che Geronzi ne diventasse presidente. Sul tema poi penso che Diego potrebbe essere sospettato di un piccolo conflitto di interessi.
Cioè?
«Lui è azionista di Rcs, ma non di Generali. Come amministratore di Generali ha diritto di parlare, ma in consiglio. E come socio di Rcs può parlare, ma non alimentare il sospetto di farlo per il proprio interesse. Anche se ammetto che la società convive con un peccato originale: l'avere un patto di sindacato che vincola
quasi il 70% delle azioni di una compagine con troppi soci».
Lei è amministratore di Mediobanca, che è primo azionista di Rcs. Invece di parlare si faccia promotore del suo scioglimento.
«Posso dirlo in Consiglio di Mediobanca, non sui giornali. Altrimenti ripeterei l'errore di Della Valle. Ma in passato ho dichiarato che un giornale deve avere un editore, non 17. Se Della Valle vuole il Corriere chieda lo scioglimento del patto e se lo compri. Faccia l'editore, mestiere che gli piace particolarmente».
Per sciogliere un patto bisogna che gli altri siano d'accordi. Lei lo è?
«Se usciamo tutti dal patto Rcs io sono perché lo faccia anche Mediobanca.
Per il Corriere si copi Le Monde, che ha un paio di azionisti forti più delle quote
in mano ai giornalisti».
Se lei fosse stato Geronzi avrebbe fatto quell'intervista al "Financial Times" che tanto ha urtato i soci?
«No, non l'avrei fatta così. Ma conoscendo bene Geronzi so che voleva dire che una società italiana così importante per il bene del paese non può ignorare il sistema economico dove opera».
Più che per quello del paese, gli azionisti vogliono che operi per il loro bene.
«Gli azionisti non si sono irritati per l'intervista al Financial Times, quanto perché sanno che in un sistema di investimenti che non si tiene sono scarse le possibilità di migliorare i risultati».
In che senso non si tiene?
«Siccome non faccio parte del consiglio di Generali non voglio commentare».
Il suo amico Vincent Bolloré è contento di come sta andando la compagnia di cui è vicepresidente?
«Avendo investito molto in Mediobanca è chiaro che per Bollore Generali è sempre stata importante. È contento dalla presidenza di Geronzi, della qualità del consiglio, un'opinione che del resto lo stesso Della ha fatto sua».
Pensa che il capitalismo di relazione in Italia sia in affanno?
«E' così in tutto il mondo, anche se il capitalismo di relazione è quello che ha portato il sottoscritto nei consigli di Mediobanca e Telecom, e Della Valle in quelli di tante altre società».
A proposito di Telecom. Riconfermerete Franco Bernabé alla sua guida, magari come presidente?
«Decide Telco, ma posso dire come amministratore che siamo contenti dei conti, della riduzione del debito e delle strategie in Sud America. Dunque di Bernabé che ne è l'artefice».
Paolo Madron