Sono proprio pm da Bagaglino

Milano Finanza

Assolti Geronzi, Colaninno, Gronchi, Fabrizi, Sacchetti e molti altri. Il giudice smonta il teorema del pubblico ministero Bonari: il fatto non sussiste. I legali: riformare subito la legge fallimentare

I banchieri escono a testa alta dal processo d’appello per il crack Italcase-Bagaglino. Per i giudici di secondo grado i cda delle banche finanziatrici del gruppo turistico bresciano fallito nel 2000, cioè Banco di Roma, Banca Agricola Mantovana e Banca Nazionale del Lavoro, non commisero reati quando ristrutturarono i debiti, trasformandoli da chirografari in privilegiati, di fatto proteggendosi contro un default poi avvenuto e che ha lasciato un passivo di 600 milioni di euro. Non c’è stato dunque reato di bancarotta, né preferenziale né semplice.
Con questa motivazione, che ribalta l’impianto accusatorio sostenuto dal pm Silvia Bonari, è stata assolta ieri buona parte dei 59 imputati condannati in primo grado a vario titolo. Fra tutti spicca Cesare Geronzi, presidente di Mediobanca, all’epoca dei fatti numero uno del Banco di Roma, al quale erano stati inflitti 1 anno e 8 mesi con condizionale. Ma è buona parte del gotha della finanza e delle banche italiane che tira un sospiro di sollievo. Insieme a Geronzi sono stati assolti, fra gli altri, Roberto Colaninno, Steno Marcegaglia (per loro la condanna fu pesantissima, 4 anni e 1 mese), Divo Gronchi (anche per lui 1 anno e 8 mesi), tutti presenti nei cda delle banche coinvolte, Ivano Sacchetti (ex vicepresidente di Unipol), Ettore Lonati (ex cda Bam), Mario Petroni (ex direttore generale di Bam), Paolo Accorinti (ex presidente Bna), Giuseppe Mormile (ex vicepresidente Bna). Tutti i consiglieri delle banche sono stati assolti dall’accusa di bancarotta preferenziale “perchè il fatto non sussiste” e da quella di bancarotta semplice “per non aver commesso il fatto”, insomma con formula piena. Bisognerà leggere comunque le motivazioni, attese tra 70 giorni, per conoscere il ragionamento giuridico seguito dalla Corte d’Appello. Evidentemente non è stato ritenuto come rilevante l’esame, nei cda delle banche, delle operazioni che venivano strutturate con il gruppo immobiliare-turistico che faceva capo a Mario Bertelli. Le condanne invece sono state confermate proprio per l’imprenditore, sebbene con uno sconto di pena dai 13 anni del primo grado a 8 anni e 15 giorni, per il fratello Giancarlo, che dovrà scontare 3 anni e 6 mesi, e per altri personaggi legati al gruppo.
Il primo commento ieri è stato dei legali di Geronzi: “Siamo sempre stati fiduciosi nel fatto che i giudici avrebbero prima o poi sconfessato il teorema accusatorio fondato sull’apodittica presunzione di un coinvolgimento degli allora vertici della banca, e tra questi del presidente Cesare Geronzi”, hanno dichiarato in una nota gli avvocati Vassalli e Saverino. “La sentenza odierna dà ragione di questa fiducia e sembra aprire ampi spazi, da verificare col deposito della motivazione, alla fondamentale distinzione tra ruolo delle banche e ruolo dell’imprenditore nelle problematiche penali legate al fallimento”.
Le condanne dei banchieri per il caso Bagaglino erano state emesse nel dicembre 2006 quando erano ancora carne viva la vicenda Fiorani e i casi Cirio e Parmalat. Quest’ultimo in particolare aveva già portato alla interdizione di Geronzi per 2 mesi come presidente di Capitalia. Anche in quel caso la condanna di primo grado aveva comportato per tutti i banchieri coinvolti (che nel frattempo sedevano in altri cda, come per esempio Gronchi, allora a capo della Popolare di Lodi, o come Geronzi, che era già diventato vicepresidente di Mediobanca) la sospensione per il venir meno dei requisiti di onorabilità: per tutti era stata necessaria un’assemblea che confermasse la fiducia dei soci nell’amministratore sospeso.
Le condanne, che se confermate dalla Corte bresciana avrebbero azzerato gran parte dei vertici bancari italiani, avevano sollevato il tema dei rischi penali dei banchieri nelle vicende di crisi aziendali. Era stata la stessa Abi ad avviare una discussione e un’azione di lobbying per adeguare la parte penale alla nuova impostazione civilistica del diritto fallimentare. Come dichiarò allora il presidente della fondazione Mps, Gabrillo Mancini, “si è venuto a creare un contesto in cui la posizione degli amministratori delle banche, specie quelli esecutivi, e di chi eroga il credito trova un elemento di oggettiva difficoltà quando il giudice viene chiamato a distinguere tra comportamenti in frode ai creditori, e quindi illeciti, e atti di ristrutturazione del credito”, legittimi in quanto finalizzati a evitare il dissesto e non a ritardarlo. La discussione venne poi accantonata in seguito alle polemiche sulle norme “salvabanchieri”. Ma ora, come fanno intuire i legali di Geronzi, i tempi per una riforma potrebbero essere maturi.

Fabrizio Massaro