Banche e politica in equilibrio precario

Il Sole 24 Ore

La gestione anti-deficit della crisi e I Trcmonti bond storia C umori di un menage tormentato A Piazza Affari. Se si sommano le imprese pubbliche e quelle nell’orbita Mediobanca si arriva al 70% della capitalizzazione

L’analista improvvisa un conto sul retro di una busta. “Se guardiamo alla Borsa italiana - spiega - poco più del 30%è fatto di imprese pubbliche, da Eni a Finmeccanica, da End ad A2A. Un altro blocco, che vale più del 35% del mercato, è costituito da società su cui Mediobanca esercita in qualche modo la sua influenza o perché ne possiede una quota o perché sono sue azioniste e quindi sono coinvolte nei meccanismi decisionali. Ci possiamo mettere le Generali, Telecom, Pirelli. Rcs, Intesa Sanpaolo, ma anche Unicredit, Romain Zaleski, i gruppi Pesenti, Benetton, Ligresti e De Agostini. Infine la Fininvest di Silvio Berlusconi. È evidente che ciascuno di questi soggetti ha un rapporto diverso con Mediobanca. Tuttavia non si può negare che i legami ci siano.
Ma che cosa c’entrano le imprese pubbliche con la galassia Mediobanca che è totalmente privata? Eni, Enel, Finmeccanica, Stm, Terna, Snam Rete Gas sono controllate dal Tesoro: i manager li sceglie il governo, le strategie e gli investimenti sono elaborati di concerto con i ministeri competenti, i dividendi li incassa il Tesoro. Lo stato è l’azionista di riferimento ed esercita le sue prerogative in modo attento. Anche perché i settori in cui operano le società non completamente privatizzate, dall’energia alla difesa, so- no strategici e dalla loro efficienza dipende il futuro del paese. Dunque un terzo delle società quotate, e tra queste la maggioranza delle grandi, fa capo al governo.
Per Mediobanca il discorso è diverso. La banca d’investimenti fondata da Enrico Cuccia è, ormai da anni, privata come tutti i suoi azionisti (a parte qualche fondazione che peraltro non fa parte dell’accordo di blocco). Ma alla sua guida, dal giugno del 2007, i soci hanno nominato Cesare Geronzi che, oltre a presiedere il consiglio d’amministrazione, governa anche il patto di sindacato. E un presidente “forte” seppure non operativo (gli affari sono competenza dell’amministratore delegato Alberto Nagel e del direttore generale Renato Pagliaro, entrambi allevati alla scuola di Cuccia).
La sua forza nasce dal carisma personale, dalla lunga esperienza maturata prima alla Banca d’ltalia e poi nelle banche (Cassa di risparmio di Roma e Banca di Roma-Capitalia), ma soprattutto dalla formidabile capacità d"interlocuzione” con il mondo della politica, indipendentemente dal suo colore. Geronzi riesce ad andare d’accordo con tutti. Oggi, come confermano numerosi banchieri e imprenditori, ha un rapporto privilegiato con Silvio Berlusconi e con il suo braccio destro Gianni Letta. Lungo questo “asse” corre una buona fetta del destino d’Italia.
Se si sommano le imprese pubbliche, controllate dal governo, e quelle che orbitano intorno a Mediobanca dove Berlusconi e Geronzi sono in grado di far sentire la loro voce, si arriva a 70% della capitalizzazione di borsa. o giù di lì. Un raggio d’influenza piuttosto ampio per il Cavaliere e per il suo governo. È un dato che sembra in contraddizione con quanto emerso negli articoli precedenti, quando imprenditori e banchieri sollevavano il problema della mancanza di un “centro di compensazione” in cui sviluppare progetti e strategie complessive per il paese. In realtà esiste un asse privilegiato the collega la presidenza del consiglio e la maggiore investment bank italiana interconnessa con una buona parte del cosiddetto establishment.

Un difficile equilibrio

Ma qui si torna un po’ alla domanda di partenza: è vero che la crisi ha riportato la politica al centro del sistema? E see è vero, come sta utilizzando questo potere? Qui le risposte divergono. “Non mi pare che, oggi, la politica sia forte - dice uno dei più importanti imprenditori -. Quando si lotta per la sopravvivenza giorno dopo giorno è difficile imporre una visione, coltivare dei progetti. La guerriglia permanente all’interno della maggioranza, in ampia misura lega a al problema della successione a Berlusconi, i problemi giudiziari del presidente del consiglio, l’incomunicabilità con un’opposizione a sua volta piuttosto evanescente, secondo questa visione, indeboliscono il centro-destra che peraltro si trova a governare con un mandate elettorale chiaro (i numeri in parlamento non lasciano dubbi) e in una fase in cui il primate della politica, anche e soprattutto in economia, non è messo in discussione.
Il combinato disposto – sostiene invece un politico molto attento alle questioni economiche come Bruno Tabacci – della crisi internazionale e della vittoria del centro-destra alle elezioni del 2008 ha prodotto un’enorme concentrazione di potere nelle mani di Berlusconi, che lo esercita in parte attraversoTremonti e in parte attraverso Geronzi”. Ovvero due modi molto diversi di gestirlo. Geronzi, in questa fase, riesce ad andare d’accordo con Giovanni Bazoli, presidente e “faro” d’Intesa Sanpaolo, nonostante le profonde differenze, culturali e caratteriali, che li separano. “Il dialogo c’è e serve all’interesse generale”, dice chi li frequenta entrambi. Geronzi è andato persino in soccorso di Alessandro Profumo, il supermanager di UniCredit, quando, nel momento più drammatico della crisi finanziaria, era sotto tiro delle fondazioni sue azioniste.

Il ruolo del ministro

Tremonti, al contrario, ha trascorso all’attacco i mesi più duri della crisi: i suoi bersagli preferiti sono stati i banchieri e il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Ne ha guadagnato popolarità (all’opinione pubblica i banchieri non stanno simpatici) c qualche risultato concreto (le banche hanno fatto concessioni importanti). “Ma alla fine ha esagerato - osserva un banchiere - con la storia dei Tremonti bond. Avrebbe potuto dire: “Vi ho dato il paracadute e per fortuna non è servito. Siamo stati tutti bravi”. Invece no. Ha insistito a dire: “Dovevate aprirlo”. Tanto che alla fine i hanchieri sono andati da Berlusconi e da Letta a protestare, ottenendo una sorta di armistizio (si veda Il Sole 24 Ore del novembre). Draghi a sua volta si e creato un canale di comunicazione privilegiato con Palazzo Chigi, tanto da diventare il più accreditato successore di Tremonti nel momento in cui il ministro dell’Economia stato messo sotto tiro da alcuni settori della maggioranza per la sua intransigenza sulla Legge finanziaria.
Il governo - osserva un ex-banchiere centrale- non ha una storia analiticamente fondata da raccontare. L’ottimismo di Berlusconi può anche andar bene, serve a iniettare fiducia nel sistema. Ma sono i ministri economici a non avere un’idea e la loro retorica è negativa”.
“Noi abbiamo fatto e faremo molto per il cambiamento - replica il ministro del Welfare Maurizio Sacconi - anche se al momento prevale il primum vivere, cioè evitare che le imprese muoiano. Questo non significa che il governo rinuncia ad avere una visione di lungo periodo. E infatti stiamo lavorando sul capitale organizzativo, su quello umano e su quello fisso del sistema. Ma in tutto ciò non c’è spazio per il colpo di teatro: lo svuotamento di un pezzo di welfare per abbattere la pressione fiscale. La recente riforma della previdenza ha messo in equilibrio i conti delle pensioni. E un innalzamento dell’età pensionabile produrrebbe effetti graduali, insufficienti a compensare l’abbassamento della pressione fiscale”. C’è chi vede in questa posizione la rinuncia a ridurre le imposte e a migliorare la qualità della spesa. Ma Sacconi non ci sta “Non possiamo inseguire i desideri del salotti della sinistra. La coesione sociale è un valore cui non possiamo permetterci di rinunciare in una fase come questa”.
Un politico di lungo corso torna sulla necessità di “fare sistema”: “In fasi delicate come quella attuale servirebbe un “idem sentire” tra potere politico e potere economico. I partiti devono resistere alla tentazione di tenere sotto controllo l’estahlishment usando il populismo per creare un conflitto tra il mondo dell’economia e la gente. La forza della politica è dare idee all’economia, non viceversa. Gli americani, per esempio, prima discutono, magari interferiscono con il lobbying, poi arrivano a una sintesi e vanno avanti tutti insieme:
“We americans”, dicono”. “Siamo gli unici - aggiunge un importante manager del settore privato - a uscire dalla crisi senza aver fatto nulla: né le riforme né il sostegno pubblico. L’unico progresso è che gli altri si sono avvicinati a noi aumentando deficit e debito pubblico”.
“Sulla politica di bilancio è difficile dar torto a Tremonti - commenta però un autorevole banchiere -. Poteva fare una scommessa politica aumentando il deficit, e il debito. Ma poi bisogna rientrare. E in Italia quando si allentano le briglie, poi si fa fatica a stringerle”.

Deficit e rigore

“Tremonti è consapevole del problema - aggiunge il vicesegretario del Pd Enrico Letta - ma non bisogna dimenticare che 12 mesi di crisi hanno riportato il bilancio pubblico al livello del 1994: il lavoro di Otto ministri dell’Economia e le fatiche di 15 leggi finanziarie sono stati spazzati via. Con una differenza non trascurabile: finora le privatizzazioni e il calo dei tassi d’interesse ci hanno aiutato a contenere il deficit e il debito mentre in futuro contribuiranno in misura marginale”.
Letta ne trae una conclusione: In questa situazione è un guaio se tutti sono nemici, perché la politica è fisco e spesa pubblica. E adesso non ci sono leve da azionare. Bisogna usare virtuosamente le banche per finanziare lo sviluppo, le fondazioni, la Cassa depositi e prestiti. E le authority per liberarsi dei lacci e lacciuoli che continuano a frenare il sistema. Ecco, bisogna recuperare una dimensione cooperativa: il potere politico indica gli obiettivi e fa cooperare gli attori”.
“Il rischio cui stiamo andando velocemente incontro - sottolinea un manager del settore privato - è la rottura del common ground, della fiducia reciproca e nelle istituzioni. Che la polarizzazione del sistema politico accentua. Senza questa base comune non s’incide sul Leviatano pubblico sindacale, non si risolve il problema fiscale e non si rafforza un’industria polverizzata che chiede sempre protezione”.
Dal basso si chiede dunque al governo di agire in modo più radicale. “Berlusconi ha vinto - osserva un importante imprenditore - perché ha promesso cambiamenti importanti. Che però non si realizzano. Aggiungo anche che chiunque voglia vincere le elezioni ancora per molti anni deve promettere le stesse cose the ha promesso Berlusconi: meno tasse, meno burocrazia, più infrastrutture. Ma poi deve farlo davvero”.
Tuttavia agire, decidere non è facile. La stessa impalcatura istituzionale può diventare un freno. “Il governo - spiega Sacconi - sarà protagonista negli accordi che consentono d’impedire il declino. In tutto il mondo c’è un ritorno della politica che, salvando le banche, ha salvato il sistema. E la politica  che favorisce quei compromessi su cui si costruiscono le nuove opportunità. L’Italia però ha bisogno di una leadership autorevole, delegata perché ci accorgiamo che gli altri paesi, quando decidono, sono rapidi, essenziali. E l’introduzione del federalismo sarà d’aiuto solo se sarà accompagnata da un rafforzamento del potere centrale. Un problema che fu sollevato da Bettino Craxi vent’anni fa”.
Dunque la politica, per poter agire concretamente, deve essere messa in grado di funzionare. E invece il sistema è ancora alla ricerca, dal 1992, di quell’equilibrio tra i poteri di quel common ground senza i quali è impossibile progredire.

di Orazio Carabini