E per l'eredità Cuccia, big in fila

Corriere della Sera

I protagonisti della finanza tra continuità e svolte. Niente politici. De Benedetti «Abbiamo avuto qualche disaccordo, ma era un banchiere e un uomo straordinario». La Malfa «Quella volta che disse no a Mattioli per il finanziamento alla casa editrice Einaudi»

Bisognava proprio esserci ieri nella peculiare scenografia classica e futurista della Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale: si coglievano continuità e discontinuità della finanza italiana e di ciò che ha rappresentato e significa oggi Enrico Cuccia. Il parterre dei presenti, degli assenti e di coloro che sono stati rievocati ha raccontato più di quanto la finanza stessa sia il più delle volte disposta a fare. Del resto, l'occasione del centenario della nascita del banchiere che con Raffaele Mattioli ha più segnato il Novecento del nostro credito non poteva mancare a tale promessa.
C'erano tutti. O quasi, ed è un quasi che viene sempre «giustificato» proprio per non lasciare spazio a riflessioni o retropensieri. Non riguardo alla política: assente, distante come del resto nella tradizione di Mediobanca. Con poche eccezioni di «centauri» come i relatori Giorgio La Malfa e Antonio Maccanico (il primo per «eredità» ed erudizione sull'istituto, il secondo perché ne è stato anche presidente fra l'87 e l'88, entrambi per affinità e vicinanza a Cuccia)  e Gianni Letta, ex sottosegretario alla presidenza e da poco consulente per l'Italia della Goldman Sachs.
La continuità e l'eredità sul palco sono state raffigurate in dichiarazioni d'orgoglio dei manager che oggi guidano la banca. Sostenute dal messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, letto nella breve introduzione dal presidente dell'istituto Cesare Geronzi, che definisce il banchiere «una personalità che con la sua attività ha dato un importante contributo alla vita economica del nostro Paese». L'orgoglio è nelle parole del presidente del consiglio di gestione Renato Pagliaro, che presenta il volume «Enrico Cuccia, relazioni di bilancio Mediobanca 1947-1982», dicendo che si tratta di una «boccata di aria fresca»: ricorda di Cuccia «l'indipendenza di giudizio, la chiarezza e continuità delle posizioni, la fermezza dei toni» e soprattutto lo definisce «uomo libero», rammaricandosi che «di questi tempi» simili qualità non sono «scontate affatto». E c'è orgoglio nelle parole del consigliere delegato Alberto Nagel quando ricorda la figura di Ariberto Mignoli, il giurista che, con Adolfo Tino, è stato fra gli uomini più vicini a Cuccia ed è stato a lungo presidente del parto della banca: la sua biblioteca sarà custodita nella stanza che per decenni è stata lo studio di Cuccia. Che non avrà dunque altre destinazioni.
Riflettono sull'eredità di Cuccia Maccanico e La Malfa. Il primo anche sottolineando la figura di antifascista e «azionista» del banchiere che «non appartiene solo alla storia economica del Paese, ma anche a quella política, alla costruzione della nostra democrazia repubblicana». E La Malfa si sofferma sull'«affermazione della totale autonomia di Mediobanca nel decidere le operazioni da intraprendere e rifiutare». Principio fatto valere «anche nei confronti degli azionisti dell'istituto». A cominciare dalla Comit del co-fondatore di Mediobanca, Mattioli.
La Malfa rivela l'origine di «un vivace colloquio» fra i due nel 1961. Dice: «Ho su questo punto una testimonianza diretta di Vincenzo Maranghi, che Cuccia a giusto titolo considerava il suo degno successore e che troppo presto è stato costretto a lasciare la banca». L'applauso lo interrompe. Quando riprende spiega che il contrasto era dovuto «all'ostinato e reiterato rifiuto di Cuccia di concedere un credito a un'impresa editoriale che la Comit sosteneva e Mediobanca considerava destinata, come poi avvenne in anni a noi più vicini, fallita». L'Einaudi, ma il punto in questione non era certo il nome. Bensì «che era solo Mediobanca a dover apprezzare se l'affare era buono o cattivo. Nessun altro». Un'interpretazione confermata in nota del '57 di Mattioli al verbale del consiglio di Mediobanca: riprendendo un'osservazione di Cuccia su «operazioni» riversate sull'istituto da «banche commerciali», Mattioli negava che in Comit vi fossero crediti «inaciditi» o «incagliati». Sì, ce n'erano alcuni «con velocità di rotazione lenta» ma «si tratta di operazioni che Mediobanca non ha desiderato fare e noi abbiamo preso a balia perché l'auspicata divisione del lavoro ha trovato qualche intoppo».
Non è il solo «scoop» di La Malfa il quale cita anche una lettera del '95 di Cuccia al Governatore Antonio Fazio. Il banchiere rivela a Bankitalia, che contrariamente a chi pensava Mattioli ostile ai «legami partecipativi con le grandi imprese», era stato proprio lui a «includere di suo pugno nello statuto l'acquisizione di titoli azionari». Non si tratta di sottigliezze: qui c'è materiale importante per l'interpretazione storica della figura di Cuccia. Che, dice Pagliaro, ha per paradigma l'impresa. Lo sa bene e lo racconta dal palco Giampiero Pesenti, socio che 15 anni fa grazie a Mediobanca ha fatto il salto con l'acquisto di Ciments Francais. Lo sa bene perfino un «outsider» come Umberto Veronesi. Che con Cuccia ha creato l'stituto europeo di oncologia e descrive l'umanità del banchiere,
i loro colloqui di cultura e religione, gli scontri fra il chirurgo laico e il banchiere «spirituale», ma assertore della separazione tra affari e fede, Stato e Chiesa.
La continuità, nel pubblico, è nei tanti azionisti (anche passati e futuri) di Mediobanca. Non i francesi, però: Vincent Bolloré è in Indonesia. Al cronista non sfuggono il colloquio «privé» fra Geronzi e Lucio Rondelli, il presidente della privatizzazione della ex bin Credit, e il raro intervento pubblico di Enrico Braggiotti (ex presidente della Comit) con il figlio Gerardo, il banchiere entrato in conflitto con Maranghi nel '97 e «licenziato» dall'istituto, seguito da Roberto Notarbartolo, anche lui presente ieri.
Inseguiti dalle telecamere (fuori dalla sala, però) sono Marco Tronchetti Provera e, distante da lui, Carlo De Benedetti (che ammette: «Con Cuccia ho avuto qualche disaccordo, pero è stato un uomo e un banchiere straordinario). Si notano poi i «giovani» top manager delle Generali (compagnia partecipante e partecipata) Giovanni Perissinotto e Sergio Balbinot, e Salvatore Ligresti, che sfila con le figlie Jonella (prima donna nel board di Piazzetta Cuccia) e Giulia. Cesare Romiti è con il figlo Maurizio (che è stato dirigente dell'istituto). E ancora, ci sono Ennio Doris e «piccoli» soci come Alberto Pecci, Marco Brunelli, Giancarlo Ceratti, il candidato azionista Gianni Zonin.
La continuità è poi anche nella presenza di due «ex» eccellenti: Gabriele Galateri, fino a pochi mesi fa presidente dell'istituto e ora al vertice della Telecom. In fondo è la vera star della giornata, «braccato» dai giornalisti forse più di chiunque altro. Ed è in quella di Piergaetano Marchetti, il giurista per anni «erede» di Mignoli al vertice del patto di sindacato di Mediobanca.
Non ci sono invece i due «giovani» protagonisti del recente consolidamento bancario: Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit, è impegnato nel comitato management, senza alcuna polemica (si fa notare) dopo l'astensione nel comitato nomine su Telecom. E Corrado Passera è fuori Milano. Al suo posto c'è uno dei manager a lui più vicini: Gaetano Micciché, capo del corporate della banca. Scontata l'assenza di Giovanni Bazoli: ha avuto un piccolo incidente qualche giorno fa.
La grande finanza era dunque tutta raccontata ieri. In una sala «strana» che sembrava un teatro.