I segreti di Cesare Geronzi, dominus della costellazione bancaria

Il Foglio

Quest'anno il titolo Capitalia è cresciuto del 95 per cento

"Poche chiacchiere. Oggi è il miglior banchiere d'Italia. Esce da una lunga storia di battaglie in cui sul campo sono rimaste figure in apparenza invincibili. Guida un istituto i cui difetti tanto criticati, dalla cronica mancanza di free capital agli incagli sui crediti, dipendono dalla funzione storica che gli è stata affidata per stabilizzare parti rilevanti del sistema bancario italiano in sofferenza. Ma è una banca che ora può solo crescere, in termini di risultati ed efficienza, e con una rete di istribuzione il cui sviluppo è potenzialmente formidabile".
Così Roberto Colaninno ci commenta il suo ingresso nel nuovo patto di sindacato di Capitalia, chiuso ieri e formalizzato oggi. Al fianco di altri "numeri uno", come Marco Tronchetti Provera e il gruppo Pirelli, Salvatore Ligresti, gli olandesi di Abn Amro, la Toro degli Agnelli. Un "salotto buono" che raccoglie alcune eredità di Mediobanca, e non solo per il fatto che Amministratore delegato di Capitalia è quel Matteo Arpe che a via Filodrammatici si è fatto le ossa.

I nuovi equilibri italiani
Il banchiere di cui Colaninno parla è naturalmente Cesare Geronzi, che del patto sarà presidente, che ne ha scelto i soci a uno a uno prendendosi il gusto di escluderne alcuni e di farne aspettare fuori la porta per mesi altri. Un patto che Geronzi ha materialmente scritto lui, anche se è stato rivisto nei dettagli da Berardino Libonati (altro campione mediobanchesco), e Geronzi stesso avrà parola decisiva nel designare l'amministratore delegato della banca. Dominus vero, indiscusso, forte non tanto e non solo di avere un titolo che è il record 2003 del Mib30, con la sua crescita superiore al 95 per cento da inizio d'anno. Questo dato di per sé vorrebbe dire poco ("non così poco, per noi nuovi soci, prego", osserva Colaninno), visto che Capitalia, pur sopra i 5 miliardi di euro di capitalizzazione, continua a "star sotto" di 1,7 miliardi rispetto ai mezzi propri: il che significa che il mercato ce ne metterà ancora, prima di considerare ammortizzato il peso patrimoniale negativo della pesante eredità che Capitalia si porta in pancia dalla Banca di Roma (a paragone, la banca gestita meglio in Italia, Unicredit, capitalizza quasi tre volte i mezzi propri). Piuttosto, l'osservazione di Colaninno coglie un fatto innegabile. Il nuovo patto di Capitalia chiude trionfalmente l'ennesimo capitolo della lunga storia di Geronzi, e lo consegna protagonista tra i più solidi dei nuovi equilibri italiani. Un sistema bancario il cui regista e custode, per i poteri che la legge gli conferisce su ogni significativa variazione del capitale bancario, cioè Antonio Fazio, ha reso negli anni il più autocentrato sul proprio mercato domestico (Capitalia raccoglie ad esempio l'86 per cento del suo portafoglio in Italia, ma è la media di tutte le maggiori banche italiane, rispetto alla metà o poco più di quelle francesi, olandesi e spagnole), evitando così che fossero le banche straniere a impadronirsi dei "punti deboli" del nostro sistema. La sua graduale ripulitura è toccata molte volte proprio agli istituti romani di volta in volta guidati da Geronzi, che è andato a ripulire in angoli delicati, quelli in cui la concessione dei crediti era più soggetta ai criteri politici di cui la Prima Repubblica gravava le banche pubbliche. "Siamo l'unico paese in cui una cosiddetta 'bad bank' finisce per diventare la banca più importante", attacca Francesco Cossiga. Ma questa è la storia italiana, Geronzi ha l'innegabile merito di averla saputa interpretare con equilibrio e virtù manovriere che nessun altro ha mostrato. Nessuno oggi oserebbe ripetere la celia con cui nelle aule parlamentari, alla fine degli anni 70, Beniamino Andreatta ironizzava sui lunghi anni in cui Geronzi si fece le ossa in Banca d'Italia dove conobbe bene Guido Carli e, soprattutto, Fazio. "Sapete chi importa inflazione in Italia? Il ragionier Geronzi, di lui sentirete parlare", diceva. In questo non sbagliava, Andreatta. Di tutta la covata di banchieri italiani usciti da Bankitalia, dai Savona ai Masera agli Ossola, ai Sarchielli agli Imperatori, il patron di Capitalia è colui che più di tutti ha incarnato la trasformazione del credito. I tempi in cui figurava andreottiano di ferro ma semplice direttore della Cassa di Risparmio di Roma, sotto il presidente Pellegrino Capaldo demitiano, sono preistoria. Prima realizzò, negli anni 80, l'accorpamento di tutte o quasi le Casse laziali e il Mediocredito del Lazio.
Venne poi in dote il Santo Spirito, e nel '90, con l'andreottiano Franco Piga presidente dell'Iri, in pancia alla Cassa entrò il Banco di Roma. Giuliano Amato, all'epoca vicesegretario del Psi, lo voleva in dote all'Imi di Rainer Masera e Luigi Arcuti. Ma Craxi puntò su Geronzi, ormai affrancatosi da ogni demitismo: ironia della sorte, il socialista Massimo Pini, allora consigliere d'amministrazione Iri, individuò in Gino Giugni e in un giovane professore tributarista i due "tecnici" incaricati di studiare i conferimenti del Banco nel gruppo Cassa-S.Spirito, che sarebbe diventato poi Banca di Roma, per un po' la prima banca italiana. Quel giovane professore era Giulio Tremonti, e quell'incarico svolto allora in piena dimestichezza con Geronzi lo ha frenato non poco, nello scontro all'arma bianca condotto in questi mesi dal ministero dell'Economia contro Fazio e il ruolo che Capitalia ha svolto in vicende come l'attacco a Generali prima, e la capitolazione di Vincenzo Maranghi a Mediobanca poi. Col Banco di Roma venne in dote la quota storica che esso aveva in Mediobanca, di qui l'ingresso di Geronzi nel girone A degli equilibri italiani, quello che nel frattempo Giovanni Bazoli, raccogliendo l'eredità dell'Ambrosiano, della finanza pedemontana lombarda, l'Italmobiliare dei laici Pesenti e l'Akros dell'opusdeiano Gianmario Roveraro, pensava invece di scalzare dall'esterno.

II rapporto con Cuccia
La storia ha sin qui dato ragione a Geronzi e non a Bazoli, tra i due filoni della banca cattolica che si candidarono in quei primi anni 90 a spartirsi le spoglie di Cuccia. D'accordo con Cuccia, Geronzi condusse Giuseppe Ciarrapico alla mediazione su un caso spinoso come quello Mondadori tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi. D'accordo con Cuccia, molti anni dopo, accompagno all'oblio "il Ciarra" e gli ultimi resti della cerchia andreottiana, lanciando il gruppo Sensi (all'inizio, guarda i casi, anch'esso in affari con De Benedetti nel gruppo immobiliare Lasa) e il gruppo Cragnotti.
Per poi condurre a termine mesi fa, tra mille polemiche, anche la parabola Cragnotti, non senza aver traslocato, in buon anticipo rispetto al tracollo, la Parmalat da quest'ultimo al gruppo Tanzi. Emendatosi da un Andreotti ormai politicamente declinato e forte del rapporto con Lamberto Dini, a metà anni 90 Geronzi rispondeva con decisione ad Amato che chiedeva la privatizzazione di Banca di Roma, e soci forti al posto della "amica" fondazione Cassa di risparmio.
Oggi, in effetti, Geronzi si prende la soddisfazione di aver deciso lui di tenere la fondazione fuori dal sindacato. Con Emmanuele Emanuele, che la guida, i rapporti si erano incrinati 4 anni fa, quando la fondazione disse riservatamente sì all'ultimo grande pericolo che Geronzi ha sventato, l'Opa lanciata dai torinesi del San Paolo.
Rapporto mai più sanato, le male lingue dicono addirittura di un duplice reciproco sfratto giudiziale disposto da Capitalia alla sede della fondazione, e da questa alla sede della banca, entrambe a via del Corso e di proprietà l'una dell'altra.
Con Cuccia, per due anni Geronzi tentò la via della persuasione per fondere la Commerciale e l'istituto capitolino. Gli amici di Geronzi raccontano che Cuccia era quasi convinto e che furono solo le resistenze dei manager della Comit a impedirlo. Di fatto molti ex banchieri Comit si torcono le mani, al vedere come la "loro" banca è stata cancellata da Bazoli nel gruppo Intesa. A Roma avrebbero contato di più, salvaguardando meglio la propria identità. Ed era però insieme un Geronzi che sfidava Cuccia sul suo, quello che si presentò un pomeriggio alla porta di Silvio Berlusconi. Per nulla convinto del piano di quotazione in Borsa che avrebbe annullato il ruolo che Mediobanca pensava di giocare in Fininvest,  Cuccia aveva ordinato il rientro delle esposizioni bancarie, dalla sera alla mattina, che Credit e Comit vantavano verso il gruppo Berlusconi. Fu Geronzi ad aprire la borsa, altro decisivo l'investimento nel futuro. Coi manager dell'Italia delle  privatizzazioni, Geronzi si è inteso presto. Assunse Alberto Giovannini, un "Draghi boy". La concessionaria di pubblicità MMP, decisiva per il minimo garantito pubblicitario a mezza stampa italiana, fu invenzione di Geronzi e di Ernesto Pascale. Con la soddisfazione, a fine anni 90, di vedere il professor Guido Rossi trattare direttamente il debito di 15 miliardi che il Manifesto non riusciva in alcun modo a rifondere a Geronzi Negli anni recenti, si sa com'è andata. Non è un caso che Maranghi abbia voluto trattare personalmente la resa solo con Geronzi e Tronchetti Provera. Nel frattempo, altri salvataggi "via Roma" sono avvenuti, come quello del Banco di Sicilia, e di tanto in tanto il free capital necessario a riequilibrare i buchi è stato attinto con altre operazioni realizzate sotto la regia di Bankitalia, come nel caso Bipop-Carire, in cui l'anima bresciana e bazoliana incarnata da Mino Martinazzoli, e quella delle cooperative rosse della Cassa reggiana, hanno dovuto mettere da parte ogni preconcetto verso Geronzi e la sua idea di banca. "Un'idea da centurione, forte di braccio più che di cervello", criticò un finanziere bresciano del giro Mittel, elencando i tanti manager bruciati sull'altare dei conti romani in questi anni, da Antonio Nottola a Giorgio Brambilla a Carlo Salvatori. Il "giovane" Matteo Arpe è la risposta "di mercato" del Geronzi vincente di oggi. Ha promesso di alzare il rendimento sul capitale dall'attuale 1,5 per cento al 9,3 nel 2005. Il mercato gli crede, nel primo semestre la gestione ordinaria di Capitalia era in attivo di 152 milioni di euro, rispetto a -324 nel 2002. La strada per il risanamento è ancora lunga. Ma nel frattempo i Colaninno e i Tronchetti, oltre ai costruttori che come Angelucci e Colaiacovo hanno pregato in ginocchio per farsi ammettere nel giro mentre altri come Ricucci non superavano gli esami, scommettono che Geronzi sarà il regista di una nuova grande aggregazione. E che Capitalia non finirà mai sotto il tallone del Nord. Fazio, non lo consentirà mai.