Incontro tra Capitalia e la Comunità Reggiana
Sommario
1. Introduzione
2. Le incertezze dell’attuale fase ciclica: le prospettive per le banche e le imprese
3. La competitività del sistema Italia e il ruolo delle PMI
4. I risultati dell’ultima indagine dell’Osservatorio sulle PMI (1998-2000)
5. Le “criticità” storiche del rapporto banche e PMI in Italia e i risultati dell’Osservatorio
6. Rischi e opportunità in prospettiva
7. Linee di evoluzione nei rapporti fra banche e imprese
8. Conclusioni
1. Introduzione
Ringrazio il Magnifico Rettore e l’intero corpo accademico per la considerazione accordatami invitandomi a svolgere una relazione nella sede di questa illustre Università
Il tema prescelto – quello dei rapporti banche e imprese in Italia – ha una tradizione ormai lunga nella letteratura economica, nelle analisi empiriche e nelle pratiche operative.
Nel mio intervento cercherò di dare il giusto rilievo ai dati. Posso infatti disporre di dati di prima mano, tratti dall’ultima indagine del nostro Osservatorio sulle imprese manifatturiere.
Farò procedere alcune considerazioni sulle incertezze dell’attuale quadro congiunturale nonché sulle fragilità strutturali del nostro apparato industriale.
I risultati dell’indagine mi consentiranno, poi, di delineare le dinamiche evolutive che hanno caratterizzato le maggiori imprese rispetto a quelle minori nonché, sul piano territoriale, il mezzogiorno e – in omaggio alla regione che ci ospita – l’Emilia Romagna. Mi soffermerò, successivamente, sulle evidenze fornite dall’indagine in merito al rapporto fra banche e piccole e medie imprese.
Farò seguire talune annotazioni sui rischi e le opportunità che alcuni sviluppi riservano all’evoluzione dei rapporti fra banche e imprese. Mi limiterò a considerare due aspetti: i riflessi delle concentrazioni bancarie; gli effetti attesi dalla riforma della normativa sul controllo dei rischi delle banche (c.d. Basilea2).
Infine, tenterò di isolare alcune linee di tendenza, desunte dalla mia personale percezione dei mutamenti in atto nelle imprese e nelle banche.
2. Le incertezze dell’attuale fase ciclica: le prospettive per le banche e le imprese.
Partiamo, allora, dall’attuale fase ciclica.
Il quadro macroeconomico congiunturale non delinea condizioni particolarmente favorevoli.
L’incertezza sui tempi e i modi della ripresa a livello internazionale è, oggi, particolarmente avvertita.
Le cause sono molteplici:
- una inusuale convergenza del ciclo negativo in tutte le principali aree;
- i connotati non “tradizionali” della fase di rallentamento in atto negli stati Uniti (sgonfiamento della bolla azionaria; eccesso di capacità produttiva);
- la prolungata situazione di stallo in Giappone;
- la modesta “reattività” dell’economia europea;
- le residue difficoltà nelle aree emergenti (soprattutto in America Latina)
- infine, il terrorismo e i conflitti geopolitica che configurano una minaccia eccezionale ma “permanente”.
Le previsioni più accreditate convergono su un processo di ripresa ritardato e molto “graduale”. Le aspettative di crescita per l’area euro nel prossimo biennio non sono esaltanti – fra il 2 e il 2,5 per cento al più – e quelle dell’Italia sono anche marginalmente inferiori alla media.
La svolta che determinerà il progressivo avvio del ciclo è rimandata al secondo semestre 2003: solo da quel momento si prevede un apprezzabile recupero della domanda rivolta alle imprese, un miglioramento del loro cash-flow e una ripresa degli investimenti.
In questo quadro gli elementi positivi non sono in primo piano, ma non sono assenti.
In un recente intervento il Presidente della Federal Riserve, Alan Greenspan, si è soffermato con dovizia di argomentazioni sull’accentuata crescita che continua a registrare la produttività negli Stati Uniti. È una dinamica del tutto insolita in una fase di rallentamento ciclico e di sostanziale stasi degli investimenti.
La sua interpretazione è che il nuovo tipo di tecnologia – essenzialmente informatica e delle telecomunicazioni – che ha investito il settore produttivo ha effetti particolarmente prolungati e pervasivi. Esisterebbe ancora una notevole distanza fra il potenziale pieno sfruttamento delle nuove tecnologie e il loro attuale effettivo utilizzo. Una distanza che potrà tradursi in nuove opportunità produttive non appena si sarà riavviata la fase espansiva.
La rivoluzione tecnologica non ha dunque esaurito la sua spinta sull’economia statunitense neppure dopo un decennio di eccezionale sviluppo e accumulazione di capitale. Ciò lascia ben sperare sugli spazi disponibili per la crescita in Europa che segue con notevole ritardo su questo percorso di riconversione tecnologica e ammodernamento delle strutture produttive.
La sensazione è che se si riuscirà a far ripartire il ciclo di investimenti in Europa, le nostre prospettive nel medio termine siano destinate a essere riviste in sostanziale rialzo.
3. La competitività del sistema Italia e il ruolo delle PMI
Il quadro prospettico che ho sinteticamente delineato non sembra fra i più favorevoli per rimuovere quelle condizioni strutturali che hanno frenato la competitività del sistema Italia e determinato la caduta della crescita effettiva e potenziale negli anni Novanta. Questa relativa “stagnazione” si è determinata non tanto perché si è abbassato il trend della produttività del sistema quanto perché l’accumulazione del capitale è stata inadeguata.
La presenza di disincentivi specifici all’attività di investimento non ha consentito al potenziale produttivo di tenere il passo. Si sono perse opportunità importanti collegate allo sviluppo della tecnologia e all’innovazione della base produttiva. La mancata diversificazione settoriale e la vulnerabilità delle nostre esportazioni alle sfide competitive avanzate dai paesi emergenti hanno fatto perdere al nostro export quote significative di commercio mondiale.
Per l’Italia molti hanno evocato il rischio di un precoce declino del settore industriale: dalla metà degli anni Novanta (e con l’unica eccezione del 2000) il tasso di crescita della produzione industriale è stato costantemente in flessione, divenendo addirittura negativo negli ultimi semestri.
La produzione industriale dopo il 1995 è mediamente salita a un tasso pari a un terzo rispetto a quello medio europeo. Modesta è la nostra presenza nei settori tecnologicamente avanzati: in Italia la relativa quota è pari al 6 per cento del valore aggiunto a fronte del 10 in Francia, del 26 negli Stati uniti e del 14 in Giappone.
Se trasferiamo queste criticità dall’ambito delle macrotendenze a quello delle imprese, il naturale oggetto di osservazione diviene quello delle piccole e medie imprese. Questo non perché le maggiori imprese siano esenti da problemi, ma perché il “baricentro” dimensionale del nostro sistema imprenditoriale è chiaramente spostato verso l’impresa minore.
Una tipologia di impresa che in Italia impiega ben l’85 per cento dell’occupazione nel comparto industriale, contro il 60 per cento in Francia, il 50 nel regno Unito, e appena il 40 negli Stati Uniti.
Nonostante sia stato rilevato dall’Istat, sui dati del 2000 e per la prima volta da molti anni, un aumento della dimensione media dell’impresa italiana, i problemi del nostro apparato produttivo continuano, in larga misura, a coincidere con quelli della piccola e media dimensione operativa.
Diviene essenziale disporre di strumenti in grado di osservare la “reattività” di tali imprese nel diverso contesto macroeconomico, al prevalere di nuovi orientamenti negli assetti proprietari, nei modelli organizzativi, nelle tecnologie e nei flussi di interscambio.
Diviene essenziale interrogarsi sulle capacità delle banche di interagire con questa fascia di clientela al fine di rimuovere o attenuare i vincoli finanziari, garantire nuovi servizi e ampliare l’ambito delle opportunità di sviluppo.
Il Gruppo Capitalia si trova in posizione privilegiata per effettuare periodicamente questo monitoraggio, disponendo e potendo fornire evidenze empiriche originali fra le più accreditate: i dati dell’Osservatorio sulle piccole e Medie Imprese.
Questa indagine, originariamente curata dal Mediocredito Centrale, è attualmente realizzata dalla funzione Studi di Capitalia. I risultati dell’ottava rilevazione che ha interessato un campione di 4.680 imprese si sono resi disponibili in questi giorni. Riguardano un periodo, il triennio 1998-2000, particolarmente significativo perché comprende l’avvio della moneta unica.
Caratteristica fondamentale delle rilevazioni dell’Osservatorio è la ricchezza delle informazioni qualitative che indagano su aspetti diversi: dalla proprietà e le forme di controllo, all’occupazione, agli investimenti, all’attività di ricerca, ai processi di internazionalizzazione, ai canali distributivi, alla finanza e ai rapporti banca e imprese.
4. I risultati dell’ultima indagine dell’Osservatorio sulle PMI (1998-2000)
In generale, l’ultima indagine conferma le specificità del sistema industriale italiano, caratterizzato dalla forte presenza di piccole e medie imprese, strettamente controllate dalle famiglie di appartenenza e in cui si rafforza l’articolazione in gruppi.
Emerge ancora la persistenza di un modello competitivo fondato sul binomio “made in Italy-meccanica strumentale” nonché l’evidenza di un approfondimento dei legami dell’industria italiana con l’area europea.
Detto questo, si ricava però l’impressione che le grandi imprese, da una parte, e le piccole e medie imprese dall’altra, abbiano seguito nel periodo esaminato percorsi in buona parte diversi.
Le grandi imprese e le imprese hi-tech sono quelle che hanno investito di più, non solo in valore assoluto ma anche rispetto al triennio precedente, sia nelle forme tradizionali che nelle tecnologie dell’informazione. Queste imprese hanno sostenuto maggiori spese per la ricerca e sviluppo, puntando, più che in passato, sull’innovazione di prodotto.
Esse sono anche le uniche a non avere ampliato l’occupazione, a testimonianza del profondo processo di ristrutturazione che ha investito questa dimensione operativa.
Le grandi imprese sono sospinte alle riconversioni essenzialmente dall’accentuarsi della competizione all’interno del mercato oligopolistico europeo. Ne costituisce testimonianza, nell’ambito dell’inchiesta, l’aumento dei giudizi che individuano le maggiori minacce concorrenziali in quelle provenienti da imprese ubicate nell’Unione Europea.
Una riconsiderazione delle strategie aziendali può essere derivata, inoltre dal consistente ingresso di capitale straniero nel pacchetto di controllo delle imprese di maggiore dimensione. È un fenomeno che può interpretarsi in negativo, come indice di una perdita di peso della nostra imprenditoria, am che può costituire anche un segnale di più stretta integrazione fra i mercati europei e rappresentare un fattore di stimolo per la crescita e l’aggiornamento tecnologico del nostro apparato industriale.
Per contro, sono le piccole e medie aziende a registrare nel triennio un saldo occupazionale positivo e pari al 5-6 per cento, facendo maggiore ricorso al lavoro flessibile e aumentando il turn over del personale.
A questo aumento di occupazione ha fatto riscontro, tuttavia, una caduta delle innovazioni di processo, sesso utilizzate in passato per ridurre il fattore lavoro. In queste imprese la razionalizzazione e l’innovazione restano più in superficie, investendo non tanto i prodotti e i processi, quanto le fasi organizzative-gestionali, che possono valersi di una più capillare introduzione dell’information technology.
Questo non significa che le spinte competitive non si siano accentuate anche per le piccole e medie imprese. Esse hanno però avuto un impatto e una valenza diversi, determinando soprattutto una maggiore attenzione alle esigenze riorganizzative, sia all’interno della fabbrica, sia a livello societario. In aumento risultano, infatti, soprattutto nella fascia di imprese minori, le operazioni di acquisizione e scorporo.
Notevole è poi la spinta verso i gruppi. Il numero di imprese manifatturiere appartenenti a un gruppo cresce, giungendo a una incidenza che si avvicina orami al 16 per cento del totale. Il fenomeno pur essendo tradizionalmente più consistente per le maggiori imprese, appare diffuso e in espansione in tutte le classi dimensionali e settoriali.
Questa è una realtà importante, spesso trascurata. È stato osservato che i gruppi di piccole imprese tendono a ricoprire il ruolo rappresentato in altri contesti dalla media dimensione operativa, un anello tradizionalmente debole del nostro sistema produttivo.
I gruppi sembrano diventare più snelli e diversificati: diminuiscono infatti sia il numero medio di imprese appartenenti allo stesso gruppo, sia il numero medio di addetti; aumenta, invece, la diversificazione, ovvero il numero di imprese del gruppo che non operano nello stesso settore.
Notazioni altrettanto significative derivano anche dai dati che riguardano l’internazionalizzazione delle nostre imprese.
È un tema oggi abbastanza critico poiché, come noto, anche se i nostri flussi di esportazione crescono ancora in termini reali, le nostre quote di penetrazione sui mercati internazionali sono negli ultimi anni, in declino.
Dai dati dell’Osservatorio si rileva che mentre il peso delle imprese esportatrici rimane sostanzialmente stabile – è pari a circa i 2/3 del totale – iniziano a modificarsi i settori di specializzazione.
L’apporto relativo al valore delle esportazioni delle imprese “tradizionali” [tipiche quelle del “sistema moda”] resta al primo posto (41,2 per cento dell’export totale), ma si riduce di ben sette punti rispetto alla precedente indagine. Anche il peso dei settori specializzati [tipico quello delle “macchine utensili”], si riduce sensibilmente (dal 34,7 per cento al 27,79. crescono, invece, i settori dell’alta tecnologia e i cosiddetti settori di “scala” [es. elettrodomestici].
Le trasformazioni in atto nell’export italiano rivelano due connotati fondamentali: per un verso questo faticoso riequilibrio verso livelli più alti di specializzazione; per altro verso una più forte concentrazione verso l’area europea e statunitense, che insieme rappresentano oltre il 70 per cento dei nostri mercati di sbocco.
Il primo è assolutamente positivo e andrebbe sostenuto.
La concentrazione accresce, invece, i rischi e andrebbe integrata con una maggiore apertura e con la diffusione del “made in Italy” anche sui nuovi mercati, dell’Asia, del Nord Africa e dell’Est Europa.
Vi è in particolare, la direttrice dell’area balcanica che offre opportunità considerevoli. Le statistiche del commercio con l’estero mostrano la rapidità con cui si ricostituiscono flussi e relazioni commerciali già importanti negli anni Venti, costruiti su contiguità geografiche e storiche e che solo artificiose barriere politiche avevano interrotto.
Sul piano delle specificità territoriali, infine, gli elementi di maggior novità che emergono dall’indagine si riferiscono al mezzogiorno.
L’area meridionale dimostra di aver compiuto importanti progressi nelle esportazioni, grazie alle spinte fornite, sotto il profilo merceologico, dai settori tradizionali e, sotto quello commerciale, dal rafforzamento dei legami con i mercati europei.
In più, il Mezzogiorno presenta, rispetto alle precedenti edizioni dell’indagine, una maggiore “vivacità” riguardo all’occupazione e agli investimenti. Il saldo e il turn over occupazionali delle imprese sono significativamente più alti nel triennio rispetto alle altre ripartizioni territoriali, anche per effetto del forte ricorso alle forme flessibili, in particolare ai contratti a termine e ai contratti di formazione lavoro.
Il numero di imprese del Mezzogiorno che ha effettuato investimenti è allineato a quello delle altre aree geografiche mentre è in forte incremento, rispetto al triennio precedente, il numero di quelle che hanno puntato sulle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni.
Rimane naturalmente ben visibile il divario da colmare con le aree più dinamiche del paese, come dimostrano, ad esempio, la più bassa percentuale di laureati sugli occupati totali, la scarsa rilevanza della spesa in ricerca e sviluppo, il modesto peso dei prodotti innovativi sul fatturato, la minore produttività.
Tuttavia dall’insieme dei segnali provenienti dalla rilevazione si è portati a considerare il Mezzogirono come una realtà in movimento.
Sempre sul piano della articolazione territoriale vorrei cogliere l’occasione per aggiungere alcune considerazioni relative alle imprese dell’Emilia Romagna. Rileverò solo le più importanti differenze rispetto alla media nazionale e a quella riferita all’area Nord del Paese.
Al confronto direi che il tessuto imprenditoriale nella Regione appare “più forte”: il numero di imprese che ha fatto acquisizioni nel triennio è più elevato; sono meno rilevanti le quote di proprietà estera; sono più numerose le imprese appartenenti ai gruppi che risultano più diversificati, con più forti relazioni infragruppo, ma anche con m,maggiore autonomia di gestione delle controllate.
Direi anche che sono presenti dinamiche di sviluppo più accentuate poiché emerge una più intensa crescita occupazionale, ove è anche nettamente positivo l’apporto delle maggiori imprese. Vi è una più consistente presenza di laureati fra i neoassunti ed è più diffuso l’utilizzo di forme flessibili di occupazione come il lavoro interinale.
Si avverte anche a livello regionale una più marcata propensione all’innovazione: più diffusi sono gli investimenti in tecnologia informatica e in ricerca e sviluppo; più alta è la percentuale di fatturato derivante da prodotti innovativi e con maggiore utilizzo di nuovo personale qualificato.
Al fondo di queste peculiarità del tessuto produttivo locale possiamo ritrovare le giustificazioni stesse dell’intervento di un gruppo bancario composito e articolato quale Capitalia.
È una realtà industriale tradizionale, ma al tempo stesso moderna e aperta all’innovazione; proiettata sull’estero ma anche profondamente ancorata alla domanda interna.
Questo mercato ha l’esigenza di disporre della banca “giusta”. Un gruppo non sbilanciato in nessuna particolare area di business, estremamente articolato nelle diverse fabbriche di prodotto – dal credito a breve e lungo termine, ai diversi servizi per la finanza aziendale, alle forme di gestione del risparmio – nessuna dominante e tute complementari. Un gruppo che mantiene ed esalta le potenzialità di collegamento con le aree di tradizionale insediamento e che intende valorizzare tutte le risorse e le professionalità assorbite.
Con questo insediamento il gruppo intende cogliere un ‘opportunità importante di riequilibrio e di diversificazione della propria base di clientela; l’opportunità di fronteggiare e sviluppare – affinando la propria offerta – una domanda di servizi finanziari attenta, aggiornata, collegata alle esigenze “vere” di un tessuto industriale.
Abbiamo la presunzione di costituire la banca “giusta” nel posto “giusto” e in questo senso cercheremo di operare.
5. Le “criticità” storiche del rapporto banche e PMI in Italia e i risultati dell’Osservatorio
Tornando sulle risultanze quantitative e qualitative fornite dall’Osservatorio direi che queste si presentano anche bene ad indagare periodicamente sulle ormai storiche criticità del rapporto banche e piccole e media imprese.
Come noto le criticità in questione sono state individuate in un’eccessiva dipendenza delle PMI dal credito, soprattutto a breve, e nel fenomeno del “multiaffidamento” che ostacola una relazione stabile con una banca di riferimento, impoverisce il contenuto informativo del rapporto ed ha effetti negativi sul pricing dei prodotti bancari.
Un altro elemento di fragilità coincide con lo scarso utilizzo, da parte delle imprese, di strumenti e servizi innovativi, in particolare quelli connessi con l’accesso al mercato dei capitali.
I risultati dell’Osservatorio confermano questo quadro, ma registrano anche positive tendenze evolutive.
In particolare, il numero di banche con cui l’impresa intrattiene rapporti risulta in media più basso alla fine del 2000 (4,7) di quanto non fosse alla fine del 1997 (5,4). La diminuzione appare generalizzata, comprendendo tutte le classi dimensionali, i settori e le aree geografiche.
Parallelamente aumenta la quota media di indebitamento bancario detenuta dalla banca principale, che passa dal 32 per cento del 1997 al 43 del 2000. Anche in questo caso il fenomeno appare avere una diffusione generale.
Su queste tendenze può avere influito il processo di consolidamento delle banche, realizzatosi attraverso fusioni, incorporazioni, cessioni di sportelli. Tuttavia la significatività del “movimento” segnalato dai dati, sommandosi da informazioni convergenti provenienti da fonti diverse, fa ritenere che siamo effettivamente in presenza di un mutato atteggiamento da parte delle imprese. Un comportamento volto a costruire legami più stretti con una banca di riferimento.
Non va peraltro trascurato che questa evoluzione si manifesta con evidenza maggiore là ove sono più accentuati i rischi di un qualche “razionamento” del credito: con riferimento alle piccole imprese, ai settori tradizionali, al Mezzogiorno.
Nelle aree in cui la concorrenza bancaria è più agguerrita, il numero di banche con cui l’impresa intrattiene rapporti è fra i più elevati (in media 5,1) e la quota di indebitamento detenuta dalla banca principale è fra le più modeste (40 per cento).
Anche in queste aree, tuttavia, la tendenza alla costituzione di rapporti privilegiati con una banca di riferimento appare quanto mai opportuna perché può costituire una risposta alla maggiore selettività che sta caratterizzando il comportamento del sistema bancario in questi ultimi anni.
La stessa inchiesta rileva, infatti, in aumento il numero di imprese che avrebbero desiderato maggior credito al tasso d’interesse prevalente sul mercato nonché di quelle che avrebbero domandato una maggiore quantità di credito senza ottenerla, anche se disposte a pagare un tasso di interesse leggermente più elevato.
Rimane poi molto basso il ricorso delle imprese al capitale di rischio. Ciò può indurre qualche preoccupazione se si osservano anche le modalità con le imprese finanziano gli investimenti.
Fra le fonti di finanziamento degli investimenti il peso preponderante è assunto, come nell’indagine precedente, dall’autofinanziamento (44,6 per cento), con un’incidenza crescente all’aumentare della dimensione ed elevata nell’alta tecnologia. Rispetto alla precedente rilevazione il peso dell’autofinanziamento risulta ridursi di due punti percentuali a favore del leasing che assume un ruolo tanto più rilevante tanto più si scende in termini di dimensione di impresa.
In media autofinanziamento e leasing, messi insieme, raggiungono un’incidenza percentuale sulle modalità di finanziamento degli investimenti pari a poco meno del 70 per cento. Seguono, molto distanziati e in calo in termini di incidenza, il credito bancario a medio-lungo termine e a breve.
In sostanza, non crescono gli investimenti se non cresce la capacità di autofinanziarli. Il leverage bancario puro finanzia la gestione più che l’investimento e lo sviluppo dell’equity continua a non apparire congeniale alla cultura imprenditoriale italiana.
L’Osservatorio indaga anche sulla gestione della funzione finanziaria delle imprese.
A tale riguardo continua ad affermarsi come largamente prevalente la gestione fatta attraverso strutture interne piuttosto che con l’assistenza degli intermediari. Si conferma però la percezione dell’accresciuta importanza che le imprese attribuiscono alla finanza. Continua, infatti, ad aumentare la percentuale di imprese che ha programmi di sviluppo della propria funzione finanziaria.
6. Rischi e opportunità in prospettiva
Dall’indagine emergono, dunque, segnali positivi nelle relazioni banche e piccole e medie imprese. Questo appare particolarmente confortante in un quadro analitico che di recente e è parso sottolineare piuttosto i rischi di una involuzione negativa legata a due prospettive.
La prima si collega agli effetti attesi dal processo di consolidamento del settore bancario realizzatosi in questi anni.
Da questo processo dobbiamo attenderci rischi di marginalizzazione delle imprese minori o, non piuttosto opportunità di rivitalizzazione di un rapporto con le banche?
La seconda prospettiva si connette con le proposte di un nuovo accordo nell’ambito del Comitato di Supervisione bancaria di Basilea (c.d. Basilea2). Queste proposte, come noto, intendono affrontare i numerosi punti deboli della disciplina internazionale che nel 1988 ha collegato patrimonializzazione e rischiosità degli attivi bancari.
A quest’ultimo riguardo si pongono degli interrogativi perché la proposta nuova disciplina per un verso alimenta un rischio di “stretta creditizia” per le piccole e medie imprese; per altro verso offre l’opportunità di un pricing dei servizi bancari più corretto per le imprese sane.
Per affrontare la prima questione direi che i potenziali rischi legati al processo di concentrazione delle banche sono stati evocati nell’ormai famoso Rapporto del gruppo dei dieci sul consolidamento del settore finanziario (c.d. Rapporto Ferguson).
In teoria gli effetti negativi deriverebbero da una relativa specializzazione delle banche piccole nel credito alle imprese minori (su cui avrebbero vantaggi informativi) e dalla brusca interruzione di rapporti relazionali conseguente a un processo di concentrazione. Si sostiene anche che una riduzione della concorrenza bancaria a livello locale potrebbe sbilanciare i rapporti di forza a favore della banca dominante riducendo il potere contrattuale della piccola impresa.
Credo che le modalità con cui si è determinato il processo di concentrazione bancaria in Italia e la recente evoluzione del mercato forniscano chiare evidenze in senso opposto a queste tesi.
Questo processo si è determinato il processo di concentrazione bancaria in Italia e la recente evoluzione del mercato forniscano chiare evidenze in senso opposto a queste tesi.
Questo processo si è determinato prevalentemente attraverso forme di collegamento fra banche a forte base regionale che hanno mantenuto strette relazioni con il territorio.
La lunga vicenda che ha portato alla costituzione di Capitalia è emblematica a riguardo: il mantenimento dei “brand” originari nei diversi mercati, l’autonomia attribuita alle politiche commerciali delle nostre reti e il potenziamento del mix di prodotti e servizi offerto alla clientela sono a testimoniare la rilevanza strategica che noi attribuiamo al collegamento con il territorio di riferimento.
Del resto tutti gli indicatori, sia di prezzo (spreads), sia di bancarizzazione, sia di qualità dell’offerta, a livello regionale e provinciale, attestano che la concorrenza nei mercati locali semmai è in crescita e non in riduzione.
Nell’ultimo decennio si è sostanzialmente annullato il divario fra i tassi di remunerazione dei depositi nelle diverse aree; lo spread fra tassi bancari attivi e passivi è sceso da 6 a 4 punti percentuali; la differenza fra tassi attivi applicati al Sud e al Centro-Nord è passata da 3 a 1,6 punti percentuali; sono oltre trenta le banche che operano in media in ogni provincia e si è notevolmente incrementato lo spostamento delle quote di mercato fra intermediari, sia per gli impieghi sia per i depositi.
Non mi sentirei, invece, di sottovalutare le preoccupazioni che sorgono dall’esame delle proposte di un nuovo accordo nell’ambito del comitato di Supervisione Bancaria di Basilea.
Le principali novità riguardano la possibilità di utilizzare “rating” interni di classificazione della clientela al fine non solo di una più precisa misurazione della relazione fra rischi effettivi e patrimonio, ma anche di incoraggiare le banche a migliorare la qualità dell’organizzazione aziendale e le metodologie di misurazione del rischio.
Il principale potenziale svantaggio collegato alla applicazione di metodologie più selettive e sensibili al rischio di credito è ben noto: è il cosiddetto effetto “pro ciclico”. Se il vincolo patrimoniale diventa stringente nelle fasi cicliche negative si rischia di avere proprio l’effetto – la “stretta creditizia” – che si voleva evitare riducendo le probabilità di una crisi bancaria.
Alcune evidenze empiriche hanno mostrato che la stretta creditizia verificatasi negli Stati Uniti nei primi anni ’90 può avere avuto qualche derivazione dal processo di adeguamento delle banche statunitensi al coefficiente di solvibilità fissato dall’Accordo di Basilea del 1988. analisi simili, relative al regno unito hanno, tuttavia, portato a risultati più controversi.
Il dibattito in materia è aperto e molte soluzioni volte a attenuare questi rischi sono al vaglio. Per restare sul problema dei crediti concessi alle imprese minori, che comunque restano quelli che presentano il più elevato profilo di rischio, si tratta di tenere conto di elementi compensativi.
Un portafoglio di tali crediti presenta, infatti, con riferimento all’andamento ciclico dell’economia, perdite inattese inferiori a quelle di un portafoglio di prestiti alle grandi imprese. In sostanza, mentre le grandi imprese seguono la macroeconomia, le imprese minori ne sono meno dipendenti, operando su mercati locali e settoriali molto specifici.
A questo proposito il Comitato di Basilea sta valutando di riconoscere esplicitamente la ridotta dimensione aziendale come fattore di attenuazione dei requisiti patrimoniali. In un documento del novembre 2001 il Comitato ha formulato nuove modalità di calcolo dei requisiti per il rischio di credito nel metodo dei rating interni: i coefficienti di ponderazione sono stati ridotti ed è stata attenuatala correlazione tra dotazione patrimoniale e rischiosità. Le nuove curve di ponderazione, per un portafoglio crediti come quello italiano, mitigherebbero del 20 per cento i requisiti patrimoniali medi inizialmente proposti e del 27 per cento quelli per le piccole e medie imprese.
Non si attendono, in ogni caso, effetti restrittivi generalizzati: stime effettuate in proposito in ambito ABI portano a ritenere che gli incrementi di tasso – a compenso del maggior rischio e del maggior onere patrimoniale – riguarderebbero una quota di prestiti esigua, caratterizzata da probabilità di insolvenza elevata, superiore al 4 per cento.
Certo le procedure di affidamento stanno affinandosi e diverranno più selettive. Il pricing del credito sarà sempre meglio allineato alle classi di rischio di appartenenza dell’impresa in un processo che renderà esplicita la ragione di un eventuale disallineamento dei tassi rispetto alla specifica classe di rischio.
In quest’ottica, le imprese sane che sapranno migliorare la propria trasparenza e consolidare una relazione stabile con una banca di riferimento potranno avere vantaggi considerevoli in termini di prezzo.
Nuove opportunità si apriranno per le tradizionali forme di mitigazione del rischio, tipo Confidi e fondi di garanzia.
Una cosa è abbastanza evidente. La concorrenza fra banche sulla “qualità” degli affidamenti non offrirà spazi a quei temuti “sussidi incrociati” costituiti da un maggiore onere applicato alle imprese sane o alle aree più dinamiche per sussidiare il credito alle aree più deboli.
Del resto, anche in passato, queste forme di “sussidio” non sono mai derivate da precise politiche di erogazione del credito, ma sono state l’inevitabile effetto indiretto di carenze nella capacità di monitorare il rischio effettivo delle singole posizioni.
Carenze che tutte le banche stanno oggi rapidamente rimuovendo attraverso una radicale – e anche molto onerosa – innovazione delle metodologie e delle strutture dedicate al controllo dei rischi.
Il Gruppo Capitalia è fortemente impegnato nella definizione di modellistiche robuste per la valutazione di rating interni ed ha sviluppato un insieme di conoscenze in materia di assoluto rilievo, tali da fornire consulenza per il mercato italiano ad agenzie del calibro di Moody’s.
Il nostro Gruppo sta completando una “mappatura” di tutte le società di capitale italiane in termini di rating di controparte e le nostre strutture stanno sperimentando, ormai da diverso tempo, gli effetti sul pricing della proposta di modifica della normativa di Basilea.
L’approccio da noi utilizzato è dei più sofisticati in quanto integra le stime ottenute con modelli di tipo attuariale e quelle ottenute con modelli basati sull’applicazione della teoria delle opzioni e tiene conto, oltre che delle varabili cosiddette “fondamentali” anche di quelle andamentali e settoriali.
Tutte le maggiori banche stanno lavorando in questa direzione. Nel complesso però non si dovrebbero avere effetti di “razionamento”, ma certamente si avrà più selettività nel comportamento delle banche e maggiore razionalità nella definizione del pricing.
Questa maggiore selettività del credito potrà svolgere effetti positivi sulle imprese inducendole a rafforzare le citate tendenze volte a trasformare un rapporto con le banche ancora prevalentemente orientato alle singole transazioni, quindi al vantaggio immediato, in un rapporto a maggiore contenuto relazionale, destinato a tutelare l’intero ciclo di vita dell’impresa.
7. linee di evoluzione nei rapporti fra banche e imprese.
Vorrei provare a collegare gli spunti emersi dalle risultanze del nostro Osservatorio con le valutazioni sui rischi e le opportunità emergenti nell’ambito delle relazioni banche e imprese su cui mi sono testé soffermato.
Questo collegamento mi porta a individuare alcune significative linee di tendenza suscettibili di valorizzare in positivo questo complesso di relazioni.
La prima linea di tendenza è quella che si potrebbe qualificare come della “fidelizzazione contro il razionamento”. Le evidenze dell’indagine e un complesso di indizi diversi permettono, infatti di ipotizzare uno scenario in cui intensità e fedeltà nel processo d finanziamento delle imprese costituiscono le risposte agli eventuali problemi dir rigidità dell’offerta creditizia e di percepito razionamento del credito.
Una seconda linea di tendenza è a questa collegata e rappresenta, se volete, la risposta delle banche al percorso di avvicinamento delle imprese. È una linea coerente con le scelte strategiche che stanno assumendo tutti i nostri maggiori gruppi creditizi.
Potremmo denominarla come l’evoluzione dalla “banca dominante” alla “banca partner”, intendendo la capacità della banca di riferimento di convertire il proprio radicamento territoriale in opportunità di business, integrando la gamma della propria offerta sul versante dei prodotti creditizi e dei servizi di assistenza e consulenza finanziaria. Sono, come noto, servizi per l’internazionalizzazione; servizi a favore dell’innovazione tecnologica; servizi per l’apertura al capitale di rischio.
Un’altra linea di tendenza potremmo individuarla nelle forme di “aggregazione come strumento di competitività”. È un’evoluzione che riguarda sia le anche direttamente, sia le imprese di cui abbiamo rilevato questa importante propensione alla dimensione del gruppo. A riguardo, possiamo ritenere che lo sviluppo da parte delle banche di servizi di Acquisition Finance e di Financial Advisory costituirà un fattore critico di successo nelle relazioni con le imprese.
Un’ultima linea di tendenza suscettibile di rafforzare il rapporto con le banche passa attraverso le crescente consapevolezza da parte delle imprese che “la finanza aziendale è strumento di creazione di valore”. Anche se lo scarso impiego da parte delle piccole e medie imprese di strumenti finanziari innovativi è un dato strutturale, le banche hanno spazi per meglio organizzare la domanda specifica delle imprese.
Per il finanziamento degli investimenti e per superare la riluttanza del piccolo imprenditore al ricorso al capitale di rischio potrebbero proporsi le diverse forme miste debt/equity. Le varie forme di outsourcing di aree tipiche della finanza (tesoreria, amministrazione, strumenti derivati) potrebbero essere incentivate e assistite attraverso strutture specialistiche della banca.
Sono queste,a mio avviso, direttrici di evoluzione importanti, su cui si può proficuamente investire per consolidare in positivo i rapporti fra banche e piccole medie imprese in Italia.
8. Conclusioni
Giungo così alle conclusioni.
Ho cercato in apertura di questo intervento di comporre, molto sommariamente, alcuni elementi del quadro congiunturale e delle relazioni strutturali che fanno da riferimento all’evoluzione del rapporto banche-piccole e medie imprese.
È un quadro congiunturale in cui prevale ancora l’ombra lunga dell’incertezza sui tempi e l’intensità della ripresa internazionale. È però un quadro in cui si intravedono anche elementi che possono innalzare il potenziale di crescita in Europa e riavviare un prolungato ciclo positivo. Nonostante le iniziali delusioni, le speranze riposte sull’Euro sono destinate a tornare in primo piano.
Il sistema Italia, soprattutto nel settore industriale, mostra condizioni di fragilità specifiche che devono essere affrontate se si vuole interrompere una lenta deriva dalle aree europee più dinamiche.
Sorge così il problema di capire dove vanno le nostre strutture produttive. Dove vanno le piccole e medie imprese che ne costituiscono la parte prevalente. Ho cercato di fornirne una caratterizzazione tratta dall’ultima indagine del nostro osservatorio.
L’immagine che ne ricaviamo è, nel complesso, quella di un sistema, che pur ribadendo i suoi tratti caratteristici, appare in movimento.
Lo dimostrano i mutamenti organizzativi all’interno delle imprese, la valorizzazione dei gruppi, il crescente impiego delle forme di flessibilità nei rapporti di lavoro, la penetrazione delle tecnologie dell’informazione nei processi e nei prodotti, l’aumento delle spese in ricerca e sviluppo, la diversificazione settoriale delle nostre esportazioni.
Lo dimostrano anche i cambiamenti avvenuti a livello territoriale, con il maggior dinamismo, rispetto al passato, del Mezzogiorno.
A queste tendenze favorevoli non hanno corrisposto però adeguati incrementi nella redditività né un minor indebitamento rispetto al passato.
Inoltre, rispetto a quanto si potrebbe pensare, sembrano più le grandi imprese a dimostrarsi capaci di cogliere le nuove opportunità e di adattarsi ai cambiamenti. La piccola e media impresa accusa maggiori difficoltà e rischia di restare confinata in strategie di nicchia.
Spesso si avverte che la finanza è un vincolo, un freno alle capacità di crescita delle imprese minori.
Ho individuato alcune linee di tendenza che possono andare verso la risoluzione di questo vincolo. Solo per richiamarle rapidamente, ho parlato di: “fidelizzazione contro il razionamento”; “evoluzione dalla banca dominante alla banca partner”; “aggregazione come strumento di competitività”; consapevolezza che “la finanza aziendale è strumento di creazione di valore”.
Recentemente Jeremy Rifkin, noto futurologo e presidente della Foundation on Economic Trends di Washington – parlando delle opportunità offerte dalla riqualificazione delle fonti energetiche a favore dell’idrogeno – ha visto nel modello italiano della piccola dimensione di impresa lo schema vincente destinato ad affermarsi con la rivoluzione economica e tecnologica in atto a livello mondiale.
È probabilmente una semplificazione, riferita a una prospettiva, di medio lungo termine, altamente auspicabile ma incerta.
Richiede una forte propensione all’innovazione tecnologica e alla ricerca che al momento non sembra potersi riscontrare fra le peculiarità del nostro sistema.
Più realistiche ci appaiono le preoccupazioni – come quelle più volte espresse dal Governatore Fazio – che sottolineano la perdita di competitività dell’economia italiana e parlano di imprese con “incapacità di crescere dimensionalmente”.
In questa visione, la piccola dimensione non è una scelta, ma è l’effetto di vincoli e condizionamenti.
Fra questi vincoli, credo si possa ora finalmente escludere la finanza.
Se altri condizionamenti sistemici verranno affrontati – mi riferisco alle infrastrutture, al mercato del lavoro, alla fiscalità – e se, come dimostrano i risultati dell’Osservatorio continuerà a progredire qualitativamente l’imprenditorialità delle nostre imprese minori, questa maggiore selettività nel credito e disponibilità di servizi finanziari potrà dimostrarsi il catalizzatore migliore per la crescita delle nostre imprese più sane.
Quelle che vorranno restare piccole, potranno farlo per scelta. Perché avranno individuato una strategia vincente o, eventualmente, perché vorranno verificare la praticabilità della prospettiva Rifkin in questo nuovo contesto di globalizzazione delle economie.
Vi ringrazio.