“Lo sviluppo economico tra la dimensione globale e quella locale” – Cattedra San Giusto

Trieste, 2 dicembre 2010

Diocesi di Trieste
Cattedra di San Giusto

Lo sviluppo economico tra la dimensione globale e quella locale


Intervento del Presidente delle Assicurazioni Generali Cesare Geronzi

Trieste, 2 dicembre 2010
Lo sviluppo è il nuovo nome della pace, afferma la Populorum Progressio di Paolo VI, contrastando così tutte le visioni e le pseudo teorie che, già al tempo di quella fondamentale enciclica, sostenevano tesi oggi ritornate di attualità con la “teoria della decrescita” : tesi, cioè, che considerano i pur evidenti limiti dello sviluppo per ragioni, innanzitutto, di rispetto della natura non come ostacoli da superare in positivo, bensì come impedimenti assoluti. Lo scopo del Pontefice era, in special modo, quello di fare uscire dalla fame, dall’analfabetismo, dalle malattie milioni di persone: era l’intervento di un’altissima Cattedra morale che affrontava, già in quel tempo, il tema della internazionalizzazione dell’economia, allora antesignana della globalizzazione.
L’enciclica fa parte di quel complesso di documenti magisteriali – Rerum novarum, Mater et magistra, Centesimus annus e Caritas in veritate – che costituiscono i pilastri della dottrina sociale della Chiesa.
Alla luce delle trasformazioni profonde verificatesi nell’economia e nella finanza, è maturo il tempo di una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini, come vuole l’enciclica Caritas in veritate, partendo, innanzitutto, dalla considerazione che i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani.
Esiste una giustizia commutativa, ma anche una giustizia distributiva, senza osservare la quale è anche sull’economia che si riverberano conseguenze negative. E’ il bonum commune che deve essere riproposto nel nostro agire, nelle nostre finalità.

1.    È possibile scomporre la globalizzazione in commerciale, finanziaria e degli uomini. La prima riguarda, appunto, i commerci, l’ambito del cui svolgimento si è ampliato in ogni parte del globo; la seconda concerne la possibilità, attraverso l’impiego della telematica, di collegare i punti del mondo più distanti tra di loro per l’esecuzione di operazioni finanziarie; la terza è relativa alle  migrazioni.
È un fenomeno, quello della globalizzazione, che ha precedenti in altre fasi della storia che hanno segnato una cesura profonda e che gli studiosi considerano come casi, pure essi, di globalizzazione, a partire dalla rivoluzione industriale, ma anche da antecedenti spartiacque, quale, per esempio, l’invenzione della stampa.
E’ di fronte agli effetti della rivoluzione industriale nella seconda parte dell’800 e alle condizioni di lavoro e di vita di masse di proletari e di fanciulli che Leone XIII stila la Rerum novarum ancora oggi di formidabile attualità.
Di per sé la globalizzazione – e l’insieme dei caratteri che possiede e di cui si è detto – non costituiscono certamente un fenomeno negativo. E’ il segno dei tempi.  La globalizzazione può migliorare - favorendo lo sviluppo, come, per esempio, nei commerci - le condizioni di tutti coloro che dal fenomeno sono interessati. Ma, perché si concreti in un miglioramento del benessere e nel superamento di condizioni insostenibili di vita, la globalizzazione deve essere regolata. Per tornare alla Caritas in veritate, l’esplosione dell’interdipendenza mondiale rappresenta di per sé un’opportunità. Ma senza una guida, la spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana. Occorre, dunque, orientare queste nuove dinamiche.

2.    La globalizzazione negli ultimi quindici anni si è ulteriormente sviluppata. Più di recente, ha fatto leva sul debito e si sono così creati i presupposti per la crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008.
Sono note le cause prossime della crisi: l’operatività delle banche americane che hanno trasferito rischi crescenti, attraverso il confezionamento di nuovi prodotti finanziari, fuori dall’ambito degli stessi istituti. È diffusamente conosciuta la vicenda dei mutui sub-prime che si è potuta realizzare perché hanno concorso una politica monetaria lungamente espansiva, troppo fiduciosa delle prospettive della new economy, un abbassamento della guardia nella regolamentazione e nel controllo degli intermediari e del mercato, l’affievolirsi dell’eticità, mentre molti sono stati abbacinati dalla facilità dei guadagni nel campo finanziario, insomma dall’enrichez-vous.
È mancata, soprattutto, la regolamentazione finanziaria a livello globale.  Gli organismi finanziari internazionali – Fondo Monetario, Banca Mondiale, Organizzazione mondiale del commercio – non dispongono tuttora delle necessarie attribuzioni, nonostante che da tempo si invochi un nuovo ordine monetario internazionale. Per di più, spostata una gran parte di attività finanziarie fuori dalle banche, se ne è mascherata l’entità, tanto che si è, al fine, parlato di “sistema bancario ombra” formatosi con questa esternalizzazione, rispetto a quello tradizionale. Un sistema, shadow banking, che ha riguardato pure quelle attività finanziarie, istituzionalmente extrabancarie (hedge fund, derivati, etc.).
Così si è sviluppata la crisi, il cui innesco si è avuto quando negli USA si è sgonfiata la bolla immobiliare con ripercussioni a catena nella finanza. Hanno concorso gli squilibri tra le diverse aree del mondo.
Il mancato salvataggio pubblico, negli USA, della Lehman ha inferto il colpo di grazia, rendendo ancor più virulenta la tempesta perfetta.
Dalla finanza la crisi si è trasferita, poi, all’economia reale; da questa nuovamente alla finanza e, di qui, al debito sovrano, essendo gli Stati impegnati in eccezionali interventi di sostegno degli intermediari bancari e nella reazione alla recessione con il tentativo di alimentare la crescita.
È seguito un periodo di frequenti convocazioni di vertici internazionali per intervenire nella crisi: G.7, G.20, Financial Stability Board e, a livello europeo, Eurogruppo, Ecofin.
Il primo punto affrontato è quello della introduzione di nuove regole e di una possibile forma di governance globale.
Di fronte all’iniziale prospettiva di una nuova Bretton Woods e della formazione di un nuovo corpus di norme di diritto internazionale – il global legal standard – si è, a poco a poco, passati, nei vertici internazionali, alla discussione di più limitate misure, concentrate nell’operatività delle banche, a cominciare dall’Accordo sul capitale degli istituti di credito, noto come Basilea 3, dalla disciplina dei derivati e degli hedge fund, per passare alla nota questione del too big too fail, delle banche troppo grandi per fallire, e delle SIFI, le Systemically Important Financial Institutions.
Il Financial Stability Board (FSB) ha positivamente elaborato una notevole massa di raccomandazioni e di indirizzi che ora gli Stati dovrebbero recepire nei loro ordinamenti.  Muovono tutti dalla considerazione che è sulle banche – causa fondamentale della crisi – che occorre intervenire per rafforzare il loro capitale, ridurre i debiti e contrarre l’esposizione ai grandi rischi.

3.    L’architettura finanziaria internazionale – fondata sul Fondo Monetario, sulla Banca Mondiale, sull’Organizzazione Mondiale del Commercio e sul FSB – nonostante le lunghe discussioni, non ha prodotto granché, a eccezione di quanto ha fatto il Board della Stabilità finanziaria e delle decisioni sui paradisi fiscali adottate dal G.20 di Londra del 2009.
Il vertice del G.20 di Seoul, nel quale erano state riposte molte aspettative, ha prodotto un risultato deludente, non essendo riuscito ad assumere una linea netta sulla necessità del coordinamento delle politiche economiche delle diverse aree monetarie.  E’ grave che, mentre tutti riconoscono che la globalizzazione richiede una valida governance, l’esigenza di un tale coordinamento non sia avvertita neppure per corrispondervi con un minimo, almeno, di strumentazioni.  La delusione indotta dai risultati del vertice è emersa anche nelle parole di Benedetto XVI “La crisi economica in atto, di cui si è trattato anche in questi giorni nella riunione del cosiddetto G.20, va presa in tutta la sua serietà: essa ha numerose cause e manda un forte richiamo ad una revisione profonda del modello di sviluppo economico globale”, ha detto il Pontefice.
Il comunicato finale del G.20 assume impegni generici contro il protezionismo, contro il ricorso alle svalutazioni competitive, per una indeterminata elaborazione di indicatori sugli avanzi e sui disavanzi commerciali da curare da parte del Fondo Monetario per eventuali interventi in casi da definire.  L’unica misura concreta approvata, però, riguarda Basilea 3.
Il vertice ha poi ratificato l’accordo che prevede una maggiore presenza dei Paesi emergenti nella governance del Fondo monetario internazionale: una decisione importante, ma che non si può esibire come riforma di questo organismo, le cui funzioni restano immutate, così come quelle della Banca Mondiale.
Torna qui la notazione contenuta nella Caritas in veritate secondo la quale gli Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi sull’efficacia dell’azione delle proprie strutture.
La crisi finanziaria ha insegnato la crucialità di una governance globale da costruire, fino all’ipotesi - di cui altre volte ho fatto menzione - della realizzazione di una sorta di embrionale banca centrale globale.  Sull’avvio di un tale governo non si dovrebbe ulteriormente indugiare.
La crescita dei paesi emergenti, d’altro canto, e il loro recente protagonismo non possono far dimenticare la condizione dei paesi poveri, progressivamente trascurata dopo le grandi attese degli impegni del Millennio. Sembra ritornare l’antico adagio “semper pauper eris, si pauper es”, sulla insuperabilità delle condizioni di povertà, contro le quali occorrerebbe lottare più efficacemente.
E’ scomparso dall’agenda il tema dei “beni pubblici globali” - l’acqua, la difesa dalle malattie, dalla fame - da riconoscere a tutti.  Un obiettivo che aveva mobilitato intellettuali e uomini delle istituzioni agli inizi di questo decennio.
Vorrà dire che la volontà politica si è isterilita?  Che la riflessione sulla crisi sta riportando tutti nei confini nazionali?  Che un fecondo multilateralismo è un’utopia e che i passi verso un assetto di regole e di poteri internazionali è di là da venire?
Occorrerebbe che, innanzitutto, il mondo della cultura riprendesse questi temi, fondamentali per il futuro dell’umanità. La Caritas in veritate è una formidabile sollecitazione in questo senso.

4.    Nei vertici internazionali l’azione dell’Europa in quanto tale è stata pressoché ininfluente.  La tante volte auspicata “single voice” non si è fatta sentire.  Subito dopo l’incontro di Seoul è scoppiata la crisi irlandese.  La scintilla è partita dalle banche incorse in rilevanti perdite – sui 40 miliardi – dopo lo sgonfiamento della bolla immobiliare.  Il governo irlandese aveva assicurato agli istituti di credito una garanzia totale.  In conseguenza di ciò l’impatto sul bilancio pubblico è stato dirompente.  Si è arrivati a un rapporto deficit / Pil al 32 per cento.
E’ stato necessario l’intervento del Fondo di stabilizzazione europeo, del Fondo monetario internazionale  e di altri Paesi per un sostegno di circa 85 miliardi. Si è avviato il risanamento dell’economia irlandese con una manovra quadriennale, varata dal governo, di 15 miliardi, all’esame del Parlamento il prossimo 7 dicembre.
E’ stato affermato che la vicenda – seguita da gravi fibrillazioni in Portogallo e da forti preoccupazioni per la Spagna – rischia di mettere in forse la stabilità finanziaria dell’Unione Europea.  Qualcuno si è spinto fino a ipotizzare l’uscita dall’euro di questo o quel Paese.
Vivono evidenti difficoltà quei sistemi bancari che non hanno affrontato la profonda riorganizzazione e il consolidamento che hanno invece interessato le banche italiane a metà degli anni novanta dal secolo scorso. Torna nuovamente in discussione il ruolo dell’Unione e dell’Eurosistema.  E’ difficile immaginare che si possa procedere a lungo senza chiudere il divario tra moneta e politica monetaria uniche e politiche economiche differenti per singoli Paesi. Non si volle, in preparazione del varo della moneta unica, neppure darsi carico di riflettere su ciò che sarebbe potuto accadere in presenza di shock asimmetrici nell’area dell’euro senza la possibilità per i singoli Paesi di usare la leva del cambio per contrastare gli attacchi alle proprie economie.
Dopo aver aderito all’euro senza affatto darsi carico di tale aporìa nell’illusorio convincimento, che tarda a essere riconosciuto da tanti sostenitori dell’adesione, secondo il quale la moneta avrebbe poi trascinato l’economia, sarebbe oggi catastrofico decidere l’uscita dall’euro.
E, allora, l’alternativa non può non essere un progresso nei meccanismi di integrazione, verso un vero governo economico, obiettivo ben diverso dalla rielaborazione in corso del Patto di stabilità, ma anche un avanzamento negli strumenti di prevenzione delle crisi e di intervento ex ante almeno nei casi di incombente contagio di instabilità.
L’Europa e, prima ancora, l’Eurosistema sono a un bivio: accrescere l’integrazione o restare fermi, con il rischio che proprio gli sviluppi della globalizzazione finiranno con il trasformare la stasi in arretramento, a danno di tutti.
Ora occorre prevenire il contagio con un piano organico senza attendere l’aggravarsi delle difficoltà.
Anche a livello europeo il tema delle nuove regole delle attività economiche e finanziarie è stato più volte affrontato.  Tuttavia, al di là della nuova architettura della vigilanza che decollerà il prossimo 1° gennaio – e che non è una riforma sostanziale, essendo limitati i poteri del Comitato per i rischi sistemici è delle tre Authority che sono state costituite – passi consistenti non ne sono stati fatti.  Si è intervenuti in materia di agenzie di rating e di hedge fund, ma le discipline sono deboli, scarsamente efficaci.
Nulla è stato fatto in materia di derivati, dopo avere, a lungo, sostenuto la necessità di prevedere la loro contrattazione su di una piattaforma centralizzata, quindi con l’individuazione delle controparti.
5.    La crisi finanziaria, come si è detto, ha impattato sull’economia reale. Le previsioni della crescita mondiale sono ora nettamente inferiori a quelle effettuabili meno di due anni fa, essendo stimate tra il 3 e il 4%.  
Il mancato coordinamento delle politiche economiche tra le grandi aree monetarie – di cui ho fatto cenno prima – rischia di diventare un serio ostacolo a una crescita mondiale maggiore.
Se, a livello globale, il principale problema oggi è quello dell’adeguatezza delle regole delle attività economiche e finanziarie e della mancanza di una vera Autorità politica mondiale – come sottolinea l’enciclica Caritas in veritate – a livello nazionale, le politiche per lo sviluppo debbono fare i conti, da un lato, con i crescenti problemi della finanza pubblica e con la crisi del Welfare State e, dall’altro, con il fatto che la lenta evoluzione degli organismi sopranazionali non surroga le carenze interne. La crisi si è diffusa a livello globale e a tale livello sarebbe stato necessario rispondere in prima battuta: il che, purtroppo, è avvenuto in maniera insoddisfacente.
Più in generale, a fronte degli sviluppi della globalizzazione i poteri nazionali di intervento in questo processo appaiono sempre più inadeguati. Per di più, da tempo si manifestano fenomeni di crisi degli Stati nazionali. Alla globalizzazione della economia e della finanza tarda a rispondere la globalizzazione degli ordinamenti e del diritto, per non dire delle forme di solidarietà. Anzi, siamo in presenza della crisi del diritto internazionale e del superamento delle antiche ripartizioni delle branche del diritto, a cominciare dal diritto pubblico e il diritto privato. È, questa, la cruciale questione politica, istituzionale, economica e sociale dei prossimi anni.
La risposta, almeno parziale, starebbe nell’affermazione dei principi della sussidiarietà in base ai quali tutto ciò che può essere fatto a un livello istituzionale inferiore non deve essere trasferito, con l’accentramento, al livello superiore.
La sussidiarietà, un punto fondamentale della elaborazione della Chiesa, risponde alle esigenze della partecipazione, dell’autonomia, della valorizzazione della dignità della persona. Applicata all’interno del nostro Paese nella sua accezione verticale, è alla base dell’indirizzo del federalismo fiscale in corso di traduzione nell’occorrente corpus normativo. Ma al decentramento non possono non fare da pendant forme avanzate di cooperazione e di solidarietà a livello centrale. Si deve trattare, se se ne vogliono cogliere i frutti, di un federalismo solidale. E il disegno deve essere globale. Sono irragionevoli le ipotesi prospettate dell’attuazione di un federalismo a più velocità, che segmenterebbe l’economia e la società e, in più, difficilmente risulterebbe in armonia con i principi costituzionali.
Ma la sussidiarietà, nell’accezione orizzontale, richiama l’esigenza della valorizzazione di attività che si possono ricondurre genericamente al “terzo settore”, unendo insieme funzioni con una propria distinta fisionomia, quali il privato sociale, il non profit, il volontariato, le forme diffuse di assistenza, fino all’economia del dono.
Nella limitatezza di mezzi del settore pubblico e nelle difficoltà di non poche imprese, le attività anzidette possono acquistare un ruolo maggiore.
E, a questo proposito, auspico che abbia tempestiva attuazione l’impegno assunto dal Governo per il ripristino dei fondi del “5 per mille”.
Oggi si parla anche di Welfare sociale, per rimarcare pure l’evoluzione che la materia della previdenza e dell’assistenza sta subendo in relazione alla crisi dello Stato sociale o dello Stato del benessere. Dobbiamo prendere atto di una progressiva trasformazione del concetto di “pubblico” che non è tale solo perché statale, ma può esserlo per la destinazione, a prescindere da chi pone in essere una certa attività; se questa è funzionale agli interessi generali, ben può essere promossa da organismi privati che abbiano per scopo istituzionale l’utilità sociale. Il varo di un disegno di “big society” sarebbe interessante, a patto che non si ritenga che si debba affermare la teoria dello Stato-minimo o dello Stato-guardiano notturno, considerando trasferibili funzioni fondamentali, che invece non sono surrogabili, di regolazione, controllo e di apprestamento di beni non soggetti a transazione sul mercato. D’altro canto, la crisi finanziaria globale non è stata anche la conseguenza di una carente attivazione da parte dello Stato (quello americano) delle sue competenze?


6.    Come è noto, l’Italia ha affrontato la crisi meglio di altri Paesi.          
Le banche italiane hanno reagito bene. A ciò hanno contribuito – come di recente ho ricordato – la normativa primaria e secondaria che regola, da un quindicennio, il sistema bancario; lo straordinario processo di consolidamento del settore attivato nel 1993 quando era convinzione diffusa, anche sulla stampa estera, che il sistema bancario fosse agonizzante; la tradizionale prudenza del banchiere; gli indirizzi dell’Organo di Vigilanza del passato e del presente e, da ultimo ma non per importanza, lo scudo apprestato dal Governo e dal Parlamento con i diversi provvedimenti a protezione delle banche e del risparmio. Ha, naturalmente, concorso la politica di finanza pubblica che ha consentito di avere le spalle coperte dalla messa in sicurezza dei conti dello Stato.
Per l’Eurosistema e l’Unione europea tutta è stato cruciale il governo della politica monetaria da parte della Banca centrale europea.
Oggi le banche sono chiamate a preparare l’attuazione di Basilea 3, a rinsaldare i presidi per la prevenzione dei rischi, a partire dal rafforzamento del patrimonio, senza far mancare il sostegno finanziario alle famiglie e alle imprese.
Bisogna, però, dare pure dimostrazioni concrete della volontà e della capacità  di migliorare la selezione del merito di credito,  di riequilibrare le posizioni contrattuali tra banca e clientela, di rendere meglio spendibile immagine e reputazione, di accrescere la trasparenza. E’ un percorso che appare condiviso dalla professione bancaria, che ora, però, deve offrire le prove concrete di una volontà del genere.
Il miglioramento dei rapporti con la clientela, l’attenzione ai nuovi bisogni, l’approntamento di forme nuove e diversificate nella tutela del risparmio sono impegni che incombono necessariamente anche al comparto assicurativo.  
E’ necessario che la finanza concorra allo sviluppo dell’economia. Gli interessi aziendali traggono alimento anche dagli interessi generali. Viene qui in rilievo il ruolo del profitto, come visto dal Pontefice. Non certo un dato negativo. Si può dire che deve ispirare sempre l’iniziativa dell’imprenditore, ma esso non può costituire il fine ultimo.

Quanto alle Generali – ne parlo perché è un dovere di accountability – dal canto loro, sono entrate nella crisi globale con esposizioni ai titoli subprime assai limitate, grazie alla prudente politica di investimento e alla ripartizione geografica del portafoglio.
Per la Compagnia, come per le altre società assicurative europee operanti sia nel ramo vita sia nel ramo danni, non si sono resi necessari aumenti di capitale, ma si è avuta esclusivamente una riduzione temporanea del dividendo per il 2009.  
Ora ci accingiamo a presentare un risultato di esercizio senz’altro soddisfacente. Esso premia tutti coloro, di ogni ordine e grado,  che lavorano nelle Generali. Dobbiamo valorizzare un tale esito ed essere orgogliosi di ciò che riusciamo a fare, per noi e per il Paese. I risultati, però, costituiscono uno stimolo a fare di più. Tenuto anche conto degli indirizzi delle Autorità di controllo, ci apprestiamo a valutare, negli organi collegiali convocati, specifiche proposte di riorganizzazione interna e ad esaminare il piano industriale della Società. Sono due impegni fondamentali, ai quali corrisponderemo con puntualità e organicità. Il nuovo anno sarà affrontato con un rafforzamento organizzativo e un potenziamento delle straegie.
 
7.    Una volta approvata la legge di Stabilità si aprirà una fase nuova, i cui sviluppi dipenderanno molto dall’evoluzione dei rapporti politico-istituzionali. La partecipazione ai processi indotti dalla globalizzazione esige che si sia in grado di attrezzarsi sul piano della competitività e ciò comporta che siano affrontati i nodi della produttività. Non può continuare la costante perdita di terreno in questo campo rispetto all’Europa e al contesto internazionale. Tra stabilità e crescita esiste – come da tempo sostengo -  una stretta correlazione. Occorre agire su entrambe. La produttività, a sua volta, esige che si affronti il tema delle riforme di struttura che comprendono anche quelle rivisitazioni a costo zero che riguardano l’ordinamento giuridico, le liberalizzazioni, il rapporto tra pubblica amministrazione e iniziativa economica, la giustizia.
Non si può trascurare che finora a trainare è stata la domanda estera. Ma non si può a lungo fare affidamento solo su questa. Sono necessarie misure per una spinta propulsiva interna, operando, come si è iniziato a fare dal Governo, con i provvedimenti progettati sugli incentivi e sul Mezzogiorno ed estendendo la gamma delle misure adottate. Va intensificata l’azione antievasione, già efficacemente intrapresa. L’economia sommersa avrebbe raggiunto il 20 per cento del Pil: è necessaria un’azione coordinata per l’emersione.
I risultati del contrasto dell’evasione potrebbero consentire anche una revisione delle aliquote, riducendo così il carico addossato ai contribuenti onesti.  
La risposta ai problemi della globabilizzazione sta anche nella valorizzazione di quel capitale sociale – secondo l’accezione di Putnam - frutto di forti tradizioni, di cui danno mostra le nostre città. Trieste è un caso significativo. E’ la “migliore” città in Italia secondo l’annuale indagine del Sole24ore. I suoi punti di forza sono la qualità dei servizi, dell’ambiente e delle offerte culturali e per il tempo libero. A ciò va inoltre aggiunta la sicurezza, anch’esso un punto di forza della città, come conferma una recente indagine, dalla quale risulta che Trieste si aggiudica la leadership competitiva nella categoria “igiene e sicurezza del territorio”.
Le sfide che la città ha davanti sono molte; ancora non ottimale è la sua capacità di promuovere se stessa in Italia e nel resto del mondo. Per affrontare la crisi e la globalizzazione occorre che – come è stato sostenuto – le città e le regioni europee siano contraddistinte da elevate attività economiche basate sulla conoscenza e la ricerca in modo da attrarre investimenti esteri, in particolare dalle multinazionali. Inoltre è importante che le città diventino globali grazie alle connessioni materiali ed immateriali che favoriscono la mobilità interregionale e internazionale del capitale umano. Trieste sembra muoversi nella direzione giusta. Le sue potenzialità sono alte. È fondamentale che il territorio faccia, quindi, sempre più sistema per valorizzare i suoi punti di forza e che si rafforzi la cultura imprenditoriale.
Vista la posizione strategica e la centralità della città nella nuova Europa, ponte di collegamento tra Ovest e Est ma anche tra Nord e Sud, il tema dei trasporti è ovviamente cruciale per la città ed il suo sviluppo. Sebbene un’indagine di Unioncamere in collaborazione con l’Istituto Tagliacarne sulla dotazione delle infrastrutture delle province italiane abbia visto Trieste posizionarsi al quarto posto della classifica generale, ancora molto va fatto. Vi sono segnali positivi in questa direzione, come la forte integrazione tra il porto ed il retroporto di Fernetti, con il nuovo collegamento ferroviario che permette di risparmiare quasi un’ora, il progetto per la nuova piattaforma logistica, lo sviluppo della Grande Viabilità, la creazione della terza corsia sull’A4, e i nuovi collegamenti con Milano in treno e in aereo. Ma per una città che vuole diventare “globale” c’è bisogno di un ulteriore rafforzamento dei collegamenti con l’estero, in primis con Lubiana, ancora di fatto irraggiungibile con mezzi pubblici.

Occorre creare nuove opportunità di sviluppo economico. In primo luogo, vi sono le infrastrutture non di trasporto, come la rete energetica e le telecomunicazioni. Anche in questo campo Trieste, secondo l’Istituto Tagliacarte, è particolarmente interessante. Nella “Nota sull’economia di Trieste”, redatta dall’Istituto,  si legge: “Tra le altre infrastrutture economiche non di trasporto la provincia giuliana presenta una elevata dotazione, con valori indice sempre superiori a quelli delle altre province del Friuli Venezia Giulia; in particolare, il valore più alto si registra per gli impianti e le reti energetico-ambientali, le strutture e le reti per la telefonia e la telematica, le reti bancarie e i servizi vari. Per tutte queste tipologie di infrastrutture inoltre la provincia di Trieste registra una crescita superiore a quella media nazionale, un fattore molto importante per la competitività del territorio.”
Occorre, insomma, assegnare priorità, anche per Trieste, alle infrastrutture e alla ricerca.

Concludo queste riflessioni con alcune osservazioni di sintesi.
La globalizzazione esige un rafforzamento della governabilità, a tutti i livelli e, nel contempo, lo sviluppo della sussidiarietà, del privato sociale, del decentramento istituzionale, in una logica cooperativa e solidale. Le Generali, proprio nello spirito di coesione nazionale, parteciperanno alla Mostra che è in via di preparazione per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
Una globalizzazione regolata e governata riduce la distanza tra paesi ricchi e paesi poveri; una globalizzazione senza regole l’accentua.
L’economia deve essere al servizio dell’uomo e lo sviluppo dovrebbe comprendere non solo la crescita materiale, ma anche quella spirituale, sulle tracce della Caritas in veritate.
Il liberismo sregolato e il dirigismo statuale escono sconfitti, da ultimo, dalla crisi globale. Si fa sempre più complesso il problema del rapporto tra democrazia e mercato. Il capitalismo rampante e il collettivismo sono falliti. La via da seguire è quella dell’economia sociale di mercato.
La giustizia commutativa e l’etica non sono fattori che sopravvengono dopo che il mercato ha svolto le sue transazioni. Sono, debbono essere fattori intrinseci all’agire economico. L’homo oeconomicus non esiste in natura; è solo un modo per studiare in vitro i fenomeni economici. Ma accanto a quello oeconomicus, c’è – come ricorda Pareto – l’homo politicus e l’homo religiosus. Le complessità dell’economia e della società non sono riconducibili alla meccanicità dell’operare dell’homo oeconomicus.
Oggi, tutti siamo chiamati a una prova concreta. Alla crisi che colpisce molti paesi europei e ai gravi rischi di instabilità finanziaria occorre reagire tempestivamente. Bisogna prevenire ogni ipotesi di attacco alla moneta unica. A essa, pur essendo stata costruita con un processo che presenta pecche di cui molti resistono a fare ammenda, è legato il nostro futuro, le prospettive delle nostre economie. Occorrono, però, riforme nell’architettura finanziaria dell’Unione; in particolare, bisogna rafforzare l’Eurosistema e dotare le istituzioni comunitarie di un piano anticontagio generale. Non va perso altro tempo nell’affrontare il caso del Portogallo. E contestualmente bisogna procedere, a livello europeo, su due versanti, delle riforme strutturali e dell’impulso alla crescita. Non sembra opportuna in questo quadro, un’uscita, oggi, dalle misure non convenzionali di politica monetaria. E’ stata, dunque, opportuna la decisione assunta oggi dalla Bce di non attivare il rientro di tali misure. Le parole di Jean-Claude Trichet sulle tensioni debbono fare riflettere tutti e confermare l’esigenza di tenere la guardia alta.
A livello globale, bisognerebbe finalmente fare ciò che non si è riuscito a fare neppure a Seoul: un coordinamento tra le diverse aree monetarie ed economiche. Il fatto che la crisi in Europa, se si dovesse aggravare, non sarà priva di impatti fuori dal Vecchio Continente dovrebbe illuminare tutti per riprendere la via del coordinamento.
Al nostro interno, dobbiamo affrontare i temi della produttività e della competitività, intervenire con un approccio riformatore, in particolare, nel terziario, nel Welfare e nel settore pubblico: così potremo dare risposte e speranze ai giovani, alle famiglie, al lavoro in genere, alla ricerca. Una crescita tra l’1,1 e l’1,2 per cento non è adeguata a contrastare la disoccupazione che è giunta all’8,6 per cento – il punto più alto dal 2004 – e per ridurre la precarietà, lo scoraggiamento, l’inattività diffusa soprattutto tra le giovani generazioni.
I fondamentali della nostra economia sono complessivamente rassicuranti. È stata compiuta un’operazione molto apprezzabile per il controllo della finanza pubblica.
Il momento istituzionale è complesso e delicato. Occorre affrontarlo con serenità.
Tocca all’Eurosistema e all’Unione impedire che sia messa in forse la stabilità monetaria e quella finanziaria dell’area. Senza la moneta unica non c’è avvenire, lo ripeto.
Essenziale è la preservazione di un assetto di stabilità istituzionale, economica e finanziaria. Non possiamo, tutti noi dell’Unione europea, passare alla storia come coloro che non sono stati in grado di controllare e capovolgere in positivo una forte turbolenza che ha in sé i presupposti dell’effetto-alone.
La speranza, nel tempo dell’Avvento nel quale si inscrive questo ciclo di Conferenze, è che governi e istituzioni, alla fine, riescano a prevenire il materializzarsi dell’instabilità, avendo di mira il “bonum commune”.